Quando il potere non vuole avere regole

by Editore | 26 Maggio 2011 7:05

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Bisognava escogitare qualcos’altro, e salta fuori il nemico interno: l’imprevisto scacco dipende da azioni maligne nell’ala cattolica militante; i chiamati in causa ribattono sulle truculente gaffes dell’apparato berlusconiano. L’alter ego fedelissimo entra nel merito ammettendo che l’Infallibile stavolta lo fosse alquanto meno. Il punto è cruciale: niente l’obbligava al referendum milanese in se ipsum, né gli conveniva muovere guerra universale (contro magistratura, Consulta, scuola pubblica, Europa, l’opinione dissidente): anziché fingere ipocrita minimalismo da buon politicante, sferrava insulti gratuiti; contendeva i poteri al Capo dello Stato; blaterava d’una riforma vandalica della giustizia, e non è il colmo della rettitudine da parte d’uno che trascina rognosi processi, essendosi salvato fortunosamente. Nell’etica greca gesta simili costituiscono hà½bris, delitto contro gli equilibri naturali custoditi da Dike. La storia berlusconiana è esemplare, una scalata in spregio a ogni regola: vedi come acquista per quattro soldi la villa d’Arcore; o invade l’etere, corrompendo dei politici; o s’impadronisce del colosso editoriale comprando una sentenza; e sceso in politica, a tutela del gigantesco bottino, vince tre volte, forte della diavoleria mediatica (tolta la quale, non sarebbe nessuno).

Stregato dal potere, ignora le misure del fattibile, altrimenti cambierebbe linea, metamorfosi ardua alla sua età : è pericoloso difetto organico sentirsi onnipotente; e s’ingrossa a dismisura allungando le mani dappertutto; punta al dominio assoluto; persa ogni cautela, esibisce appetiti furiosi (altro che il lupo a tre gole: La Fontaine); nega i poteri concorrenti; vuol ridisegnarsi i quadri costituzionali. In contesti favorevoli tali mosse sulle prime riescono: l’atrofia dell’organo autocritico (da cui dipendono gl’interni morali) rinfocola spiriti animali utili nella contesa rampante, ma vigono leggi anche in fisica sociale, così denominata dai vecchi positivisti; la soperchieria non paga indefinitamente. Il limite varia, secondo la pressione esercitabile dal dominante: e moderne tecnologie mediatiche l’hanno estesa; fin quando però sopravvivano cervelli attivi, lo stregone regna malsicuro.
La storia nazista fornisce l’esempio classico del punto oltre cui l’eccesso diventa rischioso: e fosse meno egomane, B. vi rifletterebbe, anziché inveire; «m’hanno paragonato a Hitler» è battuta volgare, spendibile nelle messinscene che gli sono costate una pessima figura. Sorvoliamo sulle ovvie, macroscopiche differenze. Anche l’austriaco pittorucolo d’acquarelli, venuto dal niente, è mago dell’ipnosi e gioca le partite con una lucidità  da gangster, irresistibile: attua un riarmo unilaterale; rioccupa la Renania; annette l’Austria; inghiotte Sudeti e Boemia; il patto con Stalin gli garantisce confini sicuri, ma lui vuole Lebensraum verso gli Urali, quindi invade la Polonia, sicuro che le imbelli democrazie non muovano dito; effettivamente, la guerra è finta, drà´le de guerre dove nessuno spara. Converrebbe stare al gioco. Impulsi belluini glielo vietano: riuscito il colpo scandinavo, attacca in occidente, liquidando gli avversari continentali, ma resta l’Inghilterra, invulnerabile; qui capovolge il fronte scatenando Barbarossa negl’immensi spazi russi, e s’infogna. Quando poi dichiara guerra agli Usa, aggrediti dal Giappone, l’unico esito possibile è la sconfitta. Solo lo stupido Joachim von Ribbentrop, ministro degli esteri, può almanaccare d’epiloghi transattivi. Nei quarantadue mesi seguenti difende se stesso spendendo a milioni le vite tedesche, fino al suicidio nel Bunker. Nessuno gli paragona l’attuale premier italiano, in talento diabolico, o pronostica una fine simile, ma hanno almeno tre aspetti comuni: refrattari all’ordinata vita sociale, entrambi cambiano le regole adeguando la società  a se stessi (capita nelle psicosi acted out); covano un’autostima abissale; vincano o perdano, raddoppiano la posta. È successo in questa campagna elettorale. Usato giudiziosamente, l’arnese storico aiuta a capire i fatti.
Dopo il terremoto milanese la corte trema. Incombendo il secondo turno, le direttive dicono «discorso concreto, vanterie plausibili, maniere signorili»: siccome abbiamo nella memoria la maschera truce con cui affrontava l’ordalia, sarebbe interessante sapere fin dove ammetta d’avere sbagliato; il pentimento è psicologicamente impossibile. Supponendo che vinca, lo riascolteremo più feroce. Sentiamo uno dei suoi fautori: pardon, osservatore equidistante; pende regolarmente dal lato d’Arcore ma il piviale che indossa, del moderatismo virtuoso, gli conferisce gravitas (P. Battista, «Corriere della Sera», 18 maggio). Stavolta castiga chi osava dire che l’Olonese costituisse un pericolo senza precedenti nella storia della Repubblica d’Italia (erano innocui i comunisti 1948: «carissimi nemici», li chiamava Vittorio Gorresio): dov’è «il tenebroso regime» inquinatore delle anime se gli elettori votano contro?; sono improvvisamente svegli gli ebeti intronati dal Caimano?, e via seguitando, tra quaresimale e arringa d’assise; siamo nel paese delle arti oratorie, dal pulpito al trivio, contigui. Insomma, proiettavano degl’incubi i polemisti, inter quos ego: «non era vero niente»; svanisce l’anomalia italiana. Conflitto d’interessi e pulsioni piratesche? Quando mai. Bella furberia dialettica, un poco guercia e storpia. Ripetiamolo: la partita non è destra o sinistra, finché abbiamo addosso Re Lanterna; rimosso lui, l’Italia troverebbe una fisiologia politica.

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