“Troppi soldati in quella missione subito a casa seicento uomini”
«Non abbiamo intenzione di abbandonare unilateralmente il Libano, ma 1780 soldati impegnati nella missione sono troppi. Va avviata un’azione diplomatica subito, per coinvolgere nell’operazione anche altri Paesi europei e dell’America Latina. La situazione nell’area è molto difficile: l’apporto dell’Italia è sproporzionato, ma il numero degli effettivi del contingente internazionale dell’Unifil non può essere ridotto». Ignazio La Russa è preoccupato, anche se le notizie che arrivano da Sidone sulle condizioni dei soldati feriti sono rassicuranti. Il ministro della Difesa spinge per il ridimensionamento della nostra presenza in Libano, e poco dopo lo appoggia il capo della Farnesina, Franco Frattini, che spiega: «Siamo intenzionati a farlo, troveremo le modalità , anche se sarà un processo graduale».
Ministro La Russa, che senso ha parlare di riduzione del contingente proprio nel momento in cui la tensione al confine tra Libano, Siria e Israele è altissima dopo la morte di dieci palestinesi alla frontiera?
«L’Italia non ha intenzione di lasciare il Paese. Nel 2006 la missione Unifil impose la pace dopo la guerra tra Israele ed Hezbollah. La nostra presenza è indispensabile, come ha detto il governo libanese al presidente della repubblica Napolitano. Ma questo non vuol dire non prendere in seria considerazione l’ipotesi di ridurre la nostra presenza militare».
In che modo? E da quando?
«Oggi abbiamo in Libano 1780 soldati ma sono troppi: non avendo più il comando della missione, dobbiamo scendere a 1100 uomini al più presto. Insieme agli spagnoli, abbiamo sollecitato l’intervento di altri Paesi».
Cosa propone l’Italia?
«Non molto tempo fa avevo dato l’incarico al generale Camporini di verificare la disponibilità a partecipare alla missione da parte di Stati maggiori di Paesi dell’America Latina e dell’Europa, ma questa iniziativa non ebbe seguito. Ora ci vuole una nuova azione diplomatica per spingere altri Stati, anche extra-europei, a fornire uomini e mezzi».
Con quale credibilità di fronte agli alleati? Il ministro Calderoli ha chiesto ancora una volta il ritiro del contingente: è questo è il piano del governo?
«Con Calderoli abbiamo concordato che il piano di rientro deve essere concertato con le organizzazioni internazionali. È corretto sollecitare un’azione diplomatica, ritirarci sarebbe sbagliato. Abbiamo svolto in Libano un’azione stabilizzatrice, come riconoscono palestinesi e israeliani. Ma a loro contestiamo di non aver fatto in questi anni un solo passo in avanti».
Perché?
«Entrambi sono sulle stesse posizioni da quando è finito il conflitto: la pace non ha fatto progressi. Se le cose vanno avanti così è difficile immaginare la fine della missione».
Secondo lei chi ha organizzato l’attacco ai caschi blu?
«Si è trattato di un atto terroristico di frange palestinesi. La notizia dell’attentato, però, non ci ha colti di sorpresa: qualche giorno fa abbiamo neutralizzato un agguato con un razzo. Da alcune settimane era cresciuta la tensione nell’area, forse anche in seguito agli scontri al confine con Libano e Siria tra israeliani e palestinesi».
L’Italia ha protestato per la repressione contro i manifestanti in Siria. Dietro all’attentato potrebbe esserci anche la “mano” di Damasco?
«È stato un attacco con due granate dietro a un muretto: un volume di fuoco sproporzionato per un attacco in grande stile. Non ho segnali per avvalorare l’ipotesi della regia siriana. Anche se, nel campo della fantasia, tutto è possibile».
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