“Resto all’Eurotower, sono inamovibile” Bini Smaghi alza il prezzo dell’addio
BRUXELLES – Si chiude una partita e ne comincia un’altra. Ora che Mario Draghi andrà alla Bce, scelto all’unanimità dall’Eurogruppo e designato dall’Ecofin, si apre il “caso” di Lorenzo Bini Smaghi, l’altro italiano che siede nel board della Banca centrale europea. La Francia reclama il suo posto. L’Olanda fa altrettanto. Ma l’interessato resiste: «Il mio mandato scade nel maggio del 2013. I miei progetti sono qui».
«E’ logico che uno dei due italiani, certo non il presidente, debba lasciare elegantemente», insiste il ministro Christine Lagarde, ricordando che il premier Berlusconi aveva promesso al presidente Sarkozy proprio questo posto, in cambio del pubblico sostegno a Draghi. E il collega olandese Jan Kees de Jager: «Se un italiano diventa presidente della Bce e la Francia è un Paese con la tripla A, è ragionevole che un altro italiano faccia spazio ad un francese». Però Bini Smaghi, che è anche uno dei candidati alla successione di Draghi in Banca d’Italia, fa spallucce. Ai suoi collaboratori ricorda che i membri del board sono «inamovibili». Non possono essere rimossi dall’incarico né dimettersi se non per «motivi coerenti con l’indipendenza e la credibilità del sistema delle banche centrali». O per «gravi motivi» che lui non si sente di aver commesso. Così almeno recita l’articolo 11 dello Statuto che consulta con una certa frequenza in questi giorni di fibrillazione per le nomine. E in ogni caso, «mai nessuno nella storia della Bce ha lasciato il suo posto anticipatamente».
Nella sua visione, sono i governi degli altri Paesi che devono chiedere al governo italiano di «trovare una soluzione» perché la promessa tra i due presidenti sia rispettata. Lui non può né vuole fare il primo passo. Tantomeno al buio, senza contropartite. E il responsabile dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker, che ne pensa? «Non abbiamo parlato di Bini Smaghi oggi. Ma è stato nominato fino al 2013 e dunque deve prendere le sue decisioni. Non è mio compito fare raccomandazioni al mio amico Lorenzo. Sta a lui decidere».
Ecco dunque che il caso si riconnette con la questione Banca d’Italia che è più complessa di come potrebbe sembrare, soprattutto adesso che i risultati elettorali aprono nuovi scenari politici. Perché Bini Smaghi è un candidato, appoggiato da diversi settori della maggioranza, compreso il sottosegretario Gianni Letta. Ma non è l’unico. Il ministro Tremonti, si sa, vorrebbe per il vertice di palazzo Koch il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli. Ma c’è anche un terzo scenario, caldeggiato dal governatore uscente che è quello tutto interno. Se dipendesse da Draghi, l’organigramma ideale del domani vedrebbe il direttore generale Fabrizio Saccomanni nel ruolo di governatore, il vice Ignazio Visco e Bini Smaghi solo cooptato nel Direttorio, per poi magari prendere il comando in un secondo tempo: in fondo questo banchiere fiorentino è nato a via Nazionale, anche se poi è passato al Tesoro e successivamente a Francoforte.
Il ricambio in Banca d’Italia è una faccenda delicata anche perché ha a che fare con la tradizione dell’Istituto e dunque con la sua storia centenaria. Perché mai, o meglio quasi mai, un governatore è venuto dall’esterno. E quando è accaduto, per esempio con Einaudi o nei tempi più recenti con lo stesso Draghi, era sempre in seguito a eventi traumatici. Nel primo caso, è appena finita la guerra, con l’Italia che si dibatte tra distruzione e disoccupazione; nel secondo caso, ci sono stati gli scandali dell’era Fazio. Tutti gli altri in qualche maniera venivano dall’interno o ci erano transitati. Anche Guido Carli, il più esterno dei governatori, che due anni prima di essere nominato aveva ricoperto per un breve periodo l’incarico di ministro del commercio estero, in realtà aveva già lavorato per conto di Einaudi all’Ufficio italiano cambi, aveva partecipato alle sfibranti discussioni di Bretton Woods ed era stato a Washington come rappresentante italiano presso il Fmi. Ma Menichella lo volle al suo posto ad appena 46 anni. «Ero diventato governatore quasi di colpo», dirà lui stesso. Era l’agosto del 1960.
Altri tempi. Oggi è cambiata anche la complessa procedura per la nomina del vertice della Banca d’Italia e la politica ha il suo peso. E, soprattutto, ce l’ha il Quirinale che deve firmare il decreto e dunque la proposta che gli viene formulata dal presidente del Consiglio, sentito il resto dell’esecutivo e il consiglio superiore dell’Istituto. Il capo dello Stato al momento non ha ancora ricevuto nessuna proposta. Ma seguirà l’istruttoria, c’è da giurarci, così come si è speso personalmente per sostenere la candidatura di Draghi alla Bce: l’ultima volta ancora a fine febbraio, incontrando il presidente tedesco Christian Wulff, quando ha detto che per quel posto dovevano contare le competenze e non la nazionalità . Oltre naturalmente al bene prezioso dell’indipendenza e dell’autonomia dalla politica. Un principio che a maggior ragione vale anche per palazzo Koch.
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