Protetto per quindici anni. Dallo stadio all’apicoltura la strana latitanza del Generale
Non s’è sparato un colpo alla testa come aveva promesso. Nessun epico finale di partita, dunque, in ossequio alla leggenda costruita intorno all’hajduk, al patriota che mai si sarebbe consegnato vivo al nemico. Ratko Mladic non si è ucciso, si è semplicemente arreso e pare senza nemmeno fare tante storie. Tradito forse, certamente scaricato da coloro che per oltre quindici anni ne hanno protetto la latitanza. L’ultima pagina del grande romanzo popolare di cui il boia di Srebrenica è stato protagonista va alle stampe senza effetti speciali. Quelli che invece, realtà o mito che sia, avrebbero caratterizzato i tre lustri della sua lunghissima fuga. Come in ogni storia che si rispetti anche in quella di Mladic c’è un prima e un dopo. Un prima – gli anni a cavallo tra il ‘95 e il 2003 – in cui il generale può farsi tranquillamente beffe del tribunale dell’Aja. Sono anni in cui si può concedere passeggiate a braccetto con la moglie, cene in ristoranti alla moda e perfino un po’ di tifo dalla tribuna d’onore dello stadio della Stella Rossa. Rischi? Nessuno. Ha dalla sua politici, servizi segreti e militari. E perfino, secondo un sondaggio del quotidiano Viesti, il favore del 75 per cento della gente comune.
Non c’è bisogno quindi di darsi alla macchia. Il generale può continuare a fare la vita di sempre. Come abitare nel bianco villino al 117 b di Blagoja Parovica a Belgrado. Quelli che lo proteggono gli chiedono soltanto un po’ di discrezione. E lui obbedisce. Defilarsi d’altra parte è nella sua natura schiva. Gli anni passano senza che nulla turbi la sua routine. Non una foto, non una delazione, nonostante sulla sua testa pendano taglie milionarie, solo simpatici “avvistamenti”. Allo stadio, nel 2000, durante Jugoslavia-Cina. O in dolce compagnia in questo o in quel ristorante della capitale. O a passeggio per le strade di Dedinje. In quegli anni va perfino in pensione come un sessantenne qualsiasi. E sapete chi gli firma la pratica di quiescenza? Kostunica, l’ex presidente. Un paradosso, non l’unico di un Paese che sembra incapace di fare i conti con il proprio passato.
Nel 2003 cambia la scena. Il “prima” cede il passo al “dopo”. E questi sono gli anni in cui Mladic è davvero costretto a nascondersi in un valzer di frottole e mezze verità . C’è chi giura di averlo visto sciare sui monti di Jahorina. Oppure, barbuto e capellone, pascolare pecore sulle montagne della Serbia orientale. Oppure allevatore di api a Valjevo o a meditare in uno sperduto monastero della Serbia rurale. O a Mosca davanti alla statua di Lenin. O ancora in Kazakhstan, o sulla spiaggia di Sveti Stefan in Montenegro. Qualcuno racconta di averlo incontrato ai Caraibi. C’è perfino chi lo dà per malato terminale quando non addirittura per morto. Il vento è cambiato, i vertici militari e politici pure. Adesso gli sono perfino interdette le caserme. Perfino la sua scorta è ormai ridotta all’osso. Gli rimane solo la famiglia. E Ljajic, il procuratore che gli dà la caccia, segue la pista dei soldi. Come fa uno che deve nascondersi, che ha bisogno di case sicure, di auto, a procurarsene? Qualcuno deve aiutarlo. E quel qualcuno non può essere – secondo il teorema di Ljajic – che la famiglia, il figlio soprattutto, il 36enne Darko. Darko ha una società , la Impact, di componenti elettroniche. Un’occhiata ai registri della ditta e salta fuori tra gli altri il nome dei fratelli Vujic, Vidoje e Vladislav. Vivono a Valjevo, un centinaio di chilometri a nord di Belgrado, non lontano dalla frontiera bosniaca e quindi da Srebrenica. Ricchi e di destra, con l’aria di contadini che hanno fatto fortuna. Gente solida – acque minerali, infissi in legno, alberghi e perfino una tv – ma che non ostenta. Hanno pagato assai più del dovuto una consulenza a Darko.
«Sì, sapevamo che era il figlio del generale. Ma non vediamo quale sia il problema», si giustificano i Vujic. Resta il sospetto di una forma indiretta di finanziamento, ma la prova, quella ancora non c’è. E soprattutto a Valjevo non c’è più traccia di Mladic. Che intanto si è già trasferito da qualche altra parte. A Novi Beograd, in via Juri Gagarin, a pochi isolati da dove abitava il finto guaritore Karadzic? Altro blitz, altro buco nell’acqua. Anche se non è una vera e propria caccia all’uomo, la parte sana della nuova Serbia dà l’impressione di voler arrestare per davvero il massacratore di Srebrenica, ma ci sono almeno un paio d’anni di buio assoluto. Poi ieri, a sorpresa, la notizia che Mladic si nascondeva a Lazarevo, a un’ottantina di chilometri a nord est di Belgrado, ed è stato catturato. Sembrerebbe finita.
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