Processare Osama Bin Laden Un’occasione (mancata) di forza

by Editore | 3 Maggio 2011 6:44

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La discussione sulla fine da riservare ai nemici dell’umanità  dura da venticinque secoli. «Era ora! Prendiamoci una sbornia/beviamo a viva forza: Mirsilo è morto» . Così Alceo celebrava la fine del tiranno che l’aveva esiliato da Mitilene, e inaugurava un genere letterario, il «nunc est bibendum» di Orazio: ora si deve brindare. Nella Grecia antica, la civiltà  che inventò la democrazia, il tirannicidio era considerato un valore, e gli ateniesi eressero una statua di bronzo ad Armodio e Aristogitone, che li avevano liberati dal despota Ipparco. E in America nessuno o quasi protestò quando fu impiccato Saddam Hussein. Per questo celebrare a Ground Zero la morte dell’uomo che volle l’ 11 settembre è apparso del tutto naturale, e probabilmente lo è. Non esistono regole generali, ogni personaggio fa storia a sé. La logistica finisce per contare più dei princìpi; e gli uomini che hanno ucciso Bin Laden forse non potevano agire diversamente. Se l’altro giorno— per singolare coincidenza— fosse morto pure Gheddafi sotto i missili Nato, la guerra civile che dilania la Libia sarebbe già  finita; e certo non sarebbe un male. Ma il realismo politico non impedisce di farci qualche domanda. Sottoporre Osama Bin Laden a un regolare processo, magari davanti al tribunale internazionale costituito proprio allo scopo di provare e punire i crimini contro l’umanità , sarebbe stato un passaggio difficile per l’America, ma certo avrebbe rafforzato il suo prestigio di patria della democrazia moderna, uscita scossa dalle vicende dell’Iraq, di Abu Ghraib, di Guantanamo. È difficile avanzare rilievi agli uomini che hanno liberato il mondo dal fondatore di Al Qaeda e che oggi un’intera nazione onora, a cominciare dal presidente democratico Obama e da Hillary Clinton, che annuncia secca: «Bin Laden è morto, giustizia è fatta» . Però non c’è dubbio che le buone cause non escono ridimensionate ma rafforzate da un procedimento giudiziario condotto secondo il diritto internazionale, che comprende anche le garanzie per i colpevoli. Qualche anno fa si è riaperta in Italia la discussione sull’opportunità  della fine di Mussolini. D’Alema definì un errore l’esecuzione per mano dei partigiani, subito corretto dall’allora segretario Ds Fassino. I realisti ricordarono che un processo al Duce sarebbe stato fonte di grandi imbarazzi, non solo per gli antifascisti dell’ultima ora, ma anche per le potenze alleate che l’avevano avuto come interlocutore (e, nel caso di Churchill, corrispondente) per anni. Neppure Bin Laden e la sua famiglia sono del tutto estranei all’establishment americano. Ma il punto non è questo. Nessun uomo davvero libero, se non qualche estremista islamico o qualche derelitto animato dal rancore per l’Occidente, piangerà  la morte di Bin Laden. Così come nessuno, se non i beneficiati della sua tribù, piangerebbe domani la morte di Gheddafi. Ricordare l’esistenza di un’altra via — la cattura, il processo, la condanna, l’espiazione della pena — non significa abbandonarsi a facili umanitarismi. Significa ribadire la superiorità  del diritto e della democrazia sul terrore e sul dispotismo.

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