by Editore | 12 Maggio 2011 7:57
Ed è proprio lo stato sociale a essere messo duramente in questione, certo non nei suoi principi, ci si limita a sostenere che l’attuale struttura della spesa pubblica genera sprechi assorbendo risorse che invece dovrebbero essere investite per il rilancio dell’economia. Si dice cioè che per il mondo produttivo, certi costi non sono più sostenibili, c’è la globalizzazione e ci sono i cinesi: congelare i salari, certo, ma soprattutto ridurre, di circa il 4%, i tributi dovuti dalle imprese. A compensare il minore gettito non solo una riduzione delle spese per il welfare ma anche un innalzamento dell’aliquota dell’Iva e una diminuzione del numero dei funzionari pubblici: per ogni cinque pensionati ci sarà un solo nuovo assunto.
Il potere di acquisto dei lavoratori verrebbe così colpito tre volte: dall’inflazione, che si rosicchia poco per volta il salario, dall’aumento delle imposte indirette e dalla riduzione dei servizi gratuiti. Un riequilibrio fiscale che va tutto a favore dei ceti privilegiati ai quali viene promesso anche un riaggiustamento degli scaloni dell’Irpef. Meno diritti in cambio di più occupazione, questo è il ricatto. Gli economisti prossimi al Psd sono infatti convinti che a generare disoccupazione siano le innumerevoli norme che regolano il diritto del lavoro: eliminando tutti questi «inutili» bizantinismi gli imprenditori faranno certamente a gara per assumere nuova forza lavoro. Ricordiamo, caso ce ne fosse bisogno, che è ampiamente dimostrato che meno diritti significa semplicemente meno potere contrattuale e quindi, in prospettiva, meno salario.
Un piano di ristrutturazione che ha tutto il sapore di un salto indietro nel passato di almeno 50 anni, di un periodo in cui la lunga dittatura fascista era ancora pervicacemente salda al comando e i lavoratori non erano tutelati in alcun modo. Tanto per non lasciare dubbi su quelle che sono le reali intenzioni del Psd è di pochi mesi fa la proposta di alterare quell’articolo della costituzione che sancisce la tendenziale gratuità , per tutti i cittadini, del sistema sanitario nazionale. Dopotutto, per chi se lo può permettere, c’è già la sanità privata, il cui fatturato è aumentato nell’ultimo anno del 23%.
A completare il quadro di quello che più che un programma di governo appare come la fucina del dottor Frankenstein è l’idea di introdurre nella costituzione un tetto alla spesa pubblica, limitando il rapporto debito/pil al 40 percento (oggi è al 90).
Manca per il momento una proposta chiara sulla riforma elettorale, ma viene comunque sottolineata dai dirigenti del centro destra (e non solo) l’amletica questione della «governabilità ».
È evidente però che la costruzione di uno stato tanto diseguale ha bisogno di un sistema politico che sancisca questa disuguaglianza. Se le risorse economiche si concentrano in poche mani anche le risorse politiche devono concentrarsi. Il sistema elettorale proporzionale oggi in vigore non è assolutamente in grado di supportare un simile progetto. Ci vuole una legge che trasformi maggioranze relative in maggioranze assolute, un sistema elettorale che sappia premiare i partiti «centristi» e che al contempo disincentivi il voto verso i partiti «minori».
Nonostante una capacità di fuoco particolarmente elevata, basata essenzialmente sull’appoggio incondizionato dei potentati economici e mass-mediatici, i progetti del centro destra non sembrano riscuotere grandi consensi. Lo scambio meno diritti meno salario in cambio di più lavoro non convince nessuno, i sondaggi continuano a dare il Psd in sostanziale parità con il Partido Socialista (Ps). La strategia di azione si sposta allora dai «meccanismi virtuosi» del libero mercato all’antipolitica. Si cerca cioè di mettere sul banco degli imputati l’intero mondo della politica favorendo in questo modo l’astensione di quella fetta di elettorato più propensa a votare partiti «statalisti». Se per i cittadini/elettori non è stato difficile scovare l’imbroglio della riduzione della spesa sociale molto più difficile sarà rilevare quello del qualunquismo.
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