Pieve Emanuele, vite sospese
Il noto Residence Ripamonti, esclusivo complesso di mini appartamenti, è stato adibito per ordine della prefettura milanese all’accoglienza dei profughi provenienti dalla Libia giunti a Lampedusa all’inizio della settimana scorsa. Negli stessi giorni in cui si chiudeva e si definiva la campagna elettorale per il nuovo sindaco a Milano, i 400 profughi destinati alla Lombardia sono stati condotti nell’hinterland milanese a sedici chilometri dal centro città , sistemati – o nascosti? – ai margini della metropoli.Si tratta di richiedenti asilo provenienti da Nigeria, Somalia, Ghana, Costa d’Avorio e Bangladesh, scappati dalla Libia straziata dalla guerra civile e dai bombardamenti Nato.
Loro erano già immigrati prima di sbarcare a Lampedusa; erano già mano d’opera a basso costo prima di lasciare Tripoli.
Loveday e Saturday, due fratelli nigeriani, lavoravano da due anni nel settore dei sistemi di aria condizionata per automobili e nel ramo dell’edilizia. La Libia era già il loro ‘nord’, non avrebbero mai pensato di viaggiare verso l’Europa se non fosse stato per scappare da una guerra. Per Loveday, il fratello minore, “la Libia è ancora Africa, ma ha una marcia in più; non è l’Europa, certo, ma ha un’economia che attira tutti quelli che come me cercano di costruirsi un domani”. La guerra ha vanificato i sacrifici di anni di lavoro; Saturday alza la voce e spiega che “non si può più tornare in Nigeria. Non possiamo tornare nel nostro Paese a mani vuote dopo anni di fatica, non sarebbe giusto, non potremmo fare nulla, saremmo talmente poveri da non poter nemmeno ricominciare da zero“.
E continua “prima di imbarcarci per Lampedusa con altre 850 persone abbiamo tentato di passare la frontiera con la Tunisia, ma è stato impossibile, ci abbiamo provato tutti i giorni, ma nulla da fare”. Da uomo adulto quale è rincara la dose mentre il fratello minore lo ascolta: “Noi qui non chiediamo nulla, vogliamo solo lavorare e i soldi ce li vogliamo guadagnare”. Il loro inglese aiuta la comunicazione e permette loro di chiedere e di informarsi sul loro futuro, una linea molto sottile e impercettibile al momento poiché nessuno di loro sa – forse perché nessuno ancora glielo ha spiegato – che cosa significhi quel foglio che custodiscono con cura nelle cartellette di plastica.
È l’invito a presentarsi alla Questura di Milano per avviare le pratiche di richiesta di asilo politico che saranno poi passate al vaglio dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Dietro di noi si erge monumentale e imperioso il mostro architettonico di Pieve; il pensiero di rimanere in questa struttura per mesi in attesa di un nuovo limbo, lontani dal loro paese d’origine e lontani anche dalla loro prima fortuna ritrovata in Libia, crea disagio e inquietudine. Le giornate vuote sono scandite dai tre pasti giornalieri offerti all’interno dell’edificio, da qualche passeggiata e da qualche tentativo di mettersi in comunicazione con gli amici e parenti in patria. A Pieve scarseggiano le cabine telefoniche, solo un paio nei pressi del centro cittadino, e mancano centri di telefonia mobile, quindi per alcuni una telefonata può tramutarsi in un’impresa impossibile.
La nostra conversazione dura ormai da circa quindici minuti e attorno a noi si è creato un capannello di gente, compagni di viaggio, di stanza o di residence. Non è ancora giunta nessuna associazione o Ong, da quanto viene testimoniato da loro in persona. Il gruppo dei bangladesi resta in disparte. Sembrano essere meno numerosi ma in realtà semplicemente si
appartano e non si avvicinano per partecipare alla nostra conversazione di gruppo. Purtroppo non parlano inglese né francese, ma riescono a comunicare con i loro compagni di avventura perché hanno imparato l’arabo libico.
Arriva Jean Michelle, giovane ventisettenne ivoriano. Il suo cappello da cowboy di cuoio nero stride con la t-shirt sportiva ma il suo racconto stupisce tutti. Il suo francese parigino lascia di stucco. Studente di lettere moderne e di letteratura francese, Jean Michelle racconta di aver lasciato la Costa d’Avorio poco dopo la nascita della sua prima figlia. Aveva bisogno di guadagnare di più per portare avanti la sua giovane famiglia, quindi decise, ormai quattro anni fa, di andare in Libia.
A Tripoli ha lavorato nel settore edile, ma il suo sogno sarebbe insegnare, continuare a studiare e possibilmente laurearsi, chissà , forse proprio in Italia. Daouda e Moussa, suoi connazionali, si avvicinano timidamente. Si parla ancora di Libia, ma ora con toni critici. Gheddafi non rappresentava solo la terra dell’abbondanza. “Io ho scoperto cosa significa il razzismo proprio là . Sai cosa significa non avere il diritto di replicare per un torto subito, di lamentarti per uno stipendio mai avuto, di difenderti per una violenza fisica gratuita?”, spiega Jean Michelle. “Non avevamo diritto all’assistenza sanitaria e non avremmo mai potuto presentarci in un ospedale per essere curati. Era l’inferno. Ma con l’inizio della guerra ne è cominciato un altro”.
Portandosi i palmi delle mani alle orecchie, chiude gli occhi e racconta della paura durante i bombardamenti: “Da lì si doveva scappare. La casa tremava. Dopo un primo scoppio, restavi lì, immobile in attesa di un nuovo colpo”. Daouda cerca disperatamente da tre giorni di acquistare una sim card per farsi chiamare dai parenti, un altro ragazzo somalo è inquieto perché non ha i soldi per tranquillizzare telefonicamente la madre al Paese.
Mentre Saturday ricorda il momento dello sbarco a Lampedusa e il giubilo generale dei compagni di viaggio per essere sopravvissuti alla traversata, continuano a farsi sentire le mai sopite polemiche dell’amministrazione locale, in mano a Lega e Pdl, che giungono fin dal vicino comune di Opera: ”Ci mancavano solo i profughi” ha dichiarato qualche giorno fa il primo cittadino della Lega, Ettore Fusco, insinuando un riferimento a una problematica questione accesasi nel 2010 tra Regione Lombardia e Provincia di Milano in merito a un inceneritore che si sarebbe dovuto costruire in prossimità del suo comune. Macroscopica differenza: questa volta si tratta di esseri umani, coinvolti in prima persona in una guerra alla quale l’Italia sta partecipando.
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