Pace in Medio Oriente gelo tra Obama e Netanyahu

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NEW YORK – Non si sono mai amati ma ieri al loro settimo incontro il rapporto ha toccato il livello più basso. La proposta di Barack Obama di una futura pace tra Israele e Palestina basata sul ritorno ai confini del 1967 gli è stata respinta a muso duro da Benjamin Netanyahu. «Sono confini indifendibili – gli ha detto seccamente il premier israeliano nello Studio ovale della Casa Bianca – la pace basata sulle illusioni si fracasserà  sulle rocce della realtà  in Medio Oriente». Su un’altra richiesta palestinese, il diritto di ritorno di un ampio numero di profughi, Netanyahu ha risposto altrettanto duramente: «Non succederà ». Obama ha commentato che tra i due governi ci sono differenze ma che queste dispute sono normali «fra amici». Ha cercato di rassicurare il suo ospite sottolineando «gli eccezionali legami tra le due nazioni» e con un duro passaggio sull’Iran: «Una minaccia non solo per Israele ma per il mondo intero se continua a perseguire l’armamento nucleare, un regime ipocrita che sostiene le proteste solo in casa degli altri». Soprattutto, Obama ha dato atto a Netanyahu che l’accordo recente tra il presidente dell’autorità  palestinese Mahmoud Abbas e Hamas è un serio problema perché «Hamas non è un partner per un processo di pace realistico» (rifiuta di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele).

È chiaro però che si è aperto un divario profondo tra l’America e il suo storico alleato. La destra repubblicana ha lanciato pesanti critiche a Obama, accusandolo di «tradire e abbandonare» Israele. La causa di tutto è il discorso di giovedì, quando Obama al Dipartimento di Stato ha ridefinito la sua “dottrina verso il mondo arabo”. A fianco al suo appoggio alle rivoluzioni democratiche in corso in Egitto e Tunisia, in quel discorso Obama ha evocato come base per una pace durevole tra Israele e i palestinesi il ritorno ai confini precedenti la «guerra dei sei giorni» (1967), sia pure con eventuali «scambi di territori concordati fra le due parti». Questo significa per Israele cedere il controllo della parte orientale di Gerusalemme e degli insediamenti di coloni in Cisgiordania, tutti territori conquistati appunto in quella guerra di 44 anni fa. Questa posizione non è un fulmine a ciel sereno, era stata già  elaborata dalla diplomazia americana, ma con il discorso di giovedì è la prima volta che un presidente americano fa sua questa linea in modo così esplicito, ufficiale e solenne. Uno “strappo” agli occhi degli israeliani, come dimostra il retroscena che si è scoperto ieri: informato da Washington poche ore prima che Obama cominciasse a pronunciare il discorso, giovedì mattina Netanyahu tentò di dissuaderlo in extremis con forti pressioni sul Dipartimento di Stato. Una telefonata infuocata si è svolta tra il premier israeliano e Hillary Clinton, causando 35 minuti di ritardo nell’inizio del discorso di Obama: ma alla fine il presidente Usa ha tenuto duro. 
La fiducia tra i due è ormai sottozero. Obama, da parte sua, non ha mai perdonato a Netanyahu di aver continuato la costruzione di nuovi insediamenti di coloni ignorando i ripetuti appelli di Washington. Il premier israeliano martedì parla al Congresso di Washington, su invito dei repubblicani, e con quella sponda a destra rischia di gettare altra benzina sul fuoco. Alcune organizzazioni pro-israeliane negli Stati Uniti hanno accusato Obama di essere «il presidente più anti-israeliano della storia». L’ulteriore peggioramento del clima allontana ancor più ogni prospettiva di ripresa del dialogo tra Israele e i palestinesi. Ma Obama doveva fare un gesto, e non solo verso il mondo arabo attraversato da storici cambiamenti. Anche l’Europa figura tra i destinatari del discorso di giovedì. A settembre, in occasione della prossima assemblea generale delle Nazioni Unite, Abu Mazen chiederà  che venga votato il riconoscimento dello Stato palestinese. Ha già  la certezza di incassare una maggioranza di voti. Israele però deve cercare di evitare un isolamento troppo accentuato in quell’assemblea. L’America eserciterà  il suo diritto di veto all’Onu, ma ha bisogno anche di raccogliere consensi tra gli europei, per lo meno inglesi e francesi. Senza un gesto forte di Obama verso i palestinesi, quell’impresa sembra ardua. Ora il presidente americano ha un altro appuntamento per spiegare la sua posizione: domani parlerà  davanti a una delle più importanti lobby pro-israeliane, l’American Israel Public Affairs Committee.

 


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