Obama: Occidente leader di valori aiutiamo la primavera araba
Relegato nell’ombra dal G20 (cui partecipano anche i grandi paesi emergenti che contano), il vecchio, svalutato G8 stenta a discutere e impostare i problemi mondiali più rilevanti. Ha perduto gran parte dell’autorità necessaria. Ma non per questo può trascurare quel che accade in regioni alle quali, come dice Barack Obama, è legato indissolubilmente il suo futuro, «per l’economia e la sicurezza, per la storia e la fede». Vicini o lontani dalla sponda meridionale del Mediterraneo o dalla zona del Golfo, i paesi occidentali del G8 hanno avuto atteggiamenti ambigui, o di complicità , con i raìs arabi. Li hanno frequentati come legittimi interlocutori, privilegiandoli, sostenendoli sul piano militare e finanziario, anche per il loro ruolo di repressori delle opposizioni, spesso definite islamiste (e quindi ritenute dedite al terrorismo) per comodità . Questi legami, anche personali, tra èlites politiche americane ed europee e dittatori arabi, come le pallide, evasive reazioni alle prime insurrezioni in Tunisia e in Egitto, non hanno certo contribuito alla credibilità dei vantati e predicati principi occidentali, fondati sulla promozione della democrazia e la difesa dei diritti umani.
Adesso è arrivato il momento della riparazione, se non proprio della contrizione, e al rito collettivo partecipano sette paesi (più la Russia) ufficialmente ansiosi di assecondare le transizioni democratiche in corso, ma anche interessati a negoziare, con i governi provvisori appena succeduti ai raìs, accordi di cooperazione economica in cambio di misure restrittive sui flussi migratori. A quest’ultimo aspetto sono particolarmente interessati i paesi europei ( Francia, Italia, Inghilterra, Germania). Ma l’insieme del G8 (cioè anche Stati Uniti, Giappone, Canada e Russia) vuole evitare che si formino sistemi economici contrari ai propri interessi e spera di usufruire poi indirettamente dei miliardi che si pensa saranno investiti nelle nuove democrazie.
Nel suo discorso del 19 maggio Barack Obama ha promesso l’appoggio dell’America alla democrazia nei paesi arabi al fine di garantirne la stabilità finanziaria, di promuovervi le riforme indispensabili,e di favorire l’integrazione dei mercati nell’economia globale. Le generose intenzioni del presidente degli Stati Uniti dovrebbero riverberarsi sulla riunione di Deauville. In quanto primi beneficiari i capi di governo di Tunisia e d’Egitto, rispettivamente Béji Caid Essebsi e Essam Charaf, saranno presenti, a fianco del segretario della Lega araba, Nabil Al-Arabi.
Gli aiuti multiformi sono già scritti nei programmi. Gli Stati Uniti diminuiranno il debito egiziano di un miliardo di dollari e presteranno un altro miliardo al governo del Cairo. La Banca Mondiale ha annunciato quattro miliardi e mezzo per l’Egitto nei prossimi due anni, e un miliardo e mezzo per la Tunisia. Queste le prime cifre di quello che assomiglia a un Piano Marshall, destinato a svilupparsi, ad estendersi ad altri paesi, via via che la democrazia si farà strada nel mondo arabo. La Tunisia va premiata e aiutata. Ha dato il via alla rivolta, ed ora, come l’Egitto, che ne ha seguito l’esempio, conosce una profonda crisi del turismo, essenziale risorsa economica in entrambi i paesi.
Si paragona spesso la caduta dei raìs alla caduta del Muro di Berlino,, nel senso che i dittatori cacciati hanno lasciato masse di disoccupati, in particolare tra i giovani; un’economia scarsamente diversificata, e spesso accaparrata da una manciata di privilegiati che controllano il settore pubblico, tanto esteso quanto inefficace; un’insicurezza giuridica e fiscale; e di conseguenza una lentezza o addirittura un blocco delle riforme destinato a provocare insurrezioni popolari capaci di frenare il processo di democratizzazione. «La riuscita – scrive Edmund Phelps, Premio Nobel per l’economia – dipenderà dal rispetto dei diritti individuali e dall’instaurazione di uno Stato di diritto».
L’aiuto alla «primavera araba», principale capitolo del G8 di Deauville, non cancella del tutto le ambiguità occidentali. Le quali continuano a sussistere. La prova? Lo stesso Barack Obama non osa nominare l’Arabia Saudita, antico alleato degli Stati Uniti,come paese da democratizzare; e concede al siriano Assad, impegnato in una dura repressione ma anche punto di equilibrio in una regione cronicamente instabile, quella possibilità di salvarsi applicando le riforme, che viene fermamente negata al colonnello Gheddafi, al quale non resta che l’esilio, subito, se non interviene prima l’eliminazione fisica. Né era di buon auspicio per la «primavera araba» la trionfale accoglienza (26 standing ovations, più di quelle ricevute da Obama per il discorso sullo stato dell’Unione) riservata dal Congresso americano al primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu. Il quale ha dichiarato che gli israeliani non sono occupanti stranieri in Giudea e Samaria, vale a dire in Cisgiordania, dove dovrebbe sorgere lo Stato palestinese. In quanto alle frontiere precedenti alla guerra del ‘67, entro le quali per Obama, sia pure ritoccate attraverso trattative, dovrebbe sorgere lo Stato palestinese, Netanyahu le rifiuta come punto di riferimento.
Le nascenti democrazie arabe conosceranno lenti progressi, subiranno brutali arresti, controrivoluzioni e restaurazioni, nei prossimi anni. E le mentalità occidentali faticheranno a conciliare i loro interessi, ritenuti essenziali, e il rispetto dei loro principi e dei loro impegni. Nonostante gli slanci generosi, stenteranno a vincere la diffidenza sulle conseguenze della «primavera araba». Era indegno ma facile trattare con i raìs. Saranno più difficili i rapporti con sistemi assembleari in cui convivono vari partiti, di opposta e non sempre conciliante tendenza. Gli otto paesi riuniti a Deauville rappresentano i tre quarti delle spese militari nel mondo. Per loro parlare dei conflitti in cui sono coinvolti è un obbligo. La Libia anzitutto. Le incursioni aeree si moltiplicano, gli elicotteri francesi e inglesi appena entrati in servizio avvicinano le forze di intervento agli obiettivi, quindi alla terra ferma. I rischi dunque crescono. Ma i risultati stentano ad arrivare. Il colonnello Gheddafi è più che riluttante ad accettare l’idea dell’esilio. Egli puo’ crollare tra un’ora come tra un mese o più. Non ha via di scampo. Ma le potenze impegnate trovano i tempi lunghi. Troppo costosi. Il G8 di Deauville, con i suoi aiuti generosi all’Egitto e alla Tunisia che si sono liberati di Mubarak e di Ben Ali, è anche un avvertimento ai rais che resistono e ai quali non si fanno concessioni. Dunque a Gheddafi. Il quale sarà evocato spesso sulla costa normanna.
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