Obama, l’audacia più cauta

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Ha bacchettato il re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Ha posto il leader siriano Bachir el Assad di fronte all’alternativa: «o guida le riforme o se ne va». Ha detto che la politica Usa deve liberarsi dalla gretta difesa dei propri interessi immediati, altrimenti si avrà  una divaricazione crescente tra mondo arabo e America. Ha lanciato un «piano Marshall» per i paesi che imboccano le riforme. E la lista è ancora lunga.

Il problema, come ormai accade spesso con Obama, è che tutte queste tesi coraggiose sono state dette con cauta timidezza, bilanciate da silenzi, clausole e contrappesi, tanto da essere smussate, e infine neutralizzate. Così la difesa della democrazia è compensata dal fragoroso silenzio sull’Arabia saudita e sulla sua anacronistica monarchia. L’alternativa posta al siriano Assad non è accompagnata da nessuno strumento per farla rispettare. Il ritorno ai confini del 1967 è invocato senza accennare alle centinaia di nuovi insediamenti che, proprio in contemporanea col discorso di ieri, venivano lanciati in Cisgiordania. E l’esigenza forte e convinta di due stati sovrani è azzoppata dalla pretesa che solo uno dei due (l’israeliano) possa difendersi con un esercito, mentre l’altro (palestinese) dovrebbe essere smilitarizzato.
E comunque annunciando che a settembre gli Usa non appoggeranno all’Onu uno stato palestinese indipendente. Tanto che i commentatori israeliani hanno potuto – in modo certo interessato – sostenere che in questo discorso non c’è niente di nuovo, mentre in Egitto sottolineano come Obama non ha fatto cenno ad alcuno strumento per incentivare le parti alla trattativa o, in caso contrario, a nessun deterrente per sanzionare la reticenza al negoziato. Persino il paragone tra le primavere arabe e il crollo dei paesi dell’est nel 1989 è stato sussurrato en passant, quasi vergognandosene. Ma anche la retorica conta: in un’altra stagione, con altri intenti e per altre aree geografiche Obama lo avrebbe martellato questo paragone per delineare un nuovo quadro nella regione. È perfettamente legittimo anche l’accenno all’Iran («il primo movimento democratico è nato ed è stato represso nelle piazze di Teheran»), ma ha lasciato sullo sfondo, quasi dietro le quinte, la questione iraniana che invece incombe come una cappa su ogni scenario: è curioso il silenzio sul progrmma nucleare iraniano mai citato esplicitamente. Né basta invocare il diritto della maggioranza sciita a vivere pacificamente nel Bahrein governato dai sunniti.
Sul Medio Oriente in generale non è possibile non essere d’accordo con la quasi totalità  delle affermazioni di Obama. Ma l’ovvietà  delle sue tesi pone un’ulteriore domanda. Chi infatti non preferisce la libertà  alla schiavitù? E chi vorrebbe vivere sotto una tirannia invece che in una democrazia? E che forse la pace non è meglio della guerra? E la tolleranza meglio del fanatismo? E la storia di Mohamed Bouazizi, il giovane venditore ambulante tunisino che si lascia bruciare, non è forse un exemplum virtutis civilis da manuale? A sentire Obama descrivere quel che è successo in Egitto, Yemen, Tunisia, Libia, Bahrein e Siria, sembrava di ascoltare un attento lettore medio del New York Times: un benpensante ben informato. Ma tale non era Obama, bensì l’ascoltatore che lui aveva in mente.
Questa sensazione fornisce perciò una seconda chiave di lettura, forse più pertinente, di questo discorso: il presidente si è rivolto sì ai suoi pubblici mediorientali (arabo e israeliano), ma la sua audience primaria era l’opinione pubblica americana.
Come va di moda dire oggi, Obama aveva bisogno di riorientare la sua «narrazione» mediorientale. Il presidente che due anni fa (giugno 2009) parlava al Cairo era il candidato dei progressisti e dei liberal Usa, il futuro premio Nobel della pace, presidente eletto dal mondo ancor più che dagli statunitensi. Invece l’Obama che ha parlato ieri si rivolge sempre agli arabi con la promessa di voltare pagina alla politica Usa, ma non è più quello che i generali Usa chiamavano in privato «la femminuccia», bensi è il presidente che ha ordinato l’uccisione di Osama bin Laden e che vi ha assistito con un parterre di ospiti selezionati. È quindi un uomo che non deve più ricevere lezioni di patriottismo da nessuno, tanto meno dalla comunità  ebraica americana che due anni fa era scatenata contro di lui: non dimentichiamo che furono i più oltranzisti fra gli ebrei Usa a lanciare la favola – su cui è cresciuto il movimento del Tea Party – dell’Obama segretamente musulmano ex frequentatore di madrassas. 
La carta bin Laden ha permesso a Obama di riposizionare la propria politica mediorientale. Di «vendere» agli elettori Usa la sua iniziativa di pace non come una velleità  pacifista sinistrorsa di uno snob liberal laureato ad Harvard – quale poteva apparire due anni fa – , bensì come gestione più lungimirante degli interessi a lungo termine di una potenza imperiale. Ma anche qui lasciando la porta aperta alla difesa del portafoglio: «A volte i nostri interessi a breve non collimeranno con la nostra visione a lungo termine per la regione, ma noi possiamo e vogliamo lo stesso difendere i nostri principi».


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