Nell’ex Bronx di Milano dove Pisapia batte la paura e mette all’angolo la Lega

by Editore | 28 Maggio 2011 7:56

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MILANO – I destini dell’Italia si decidono a Milano e il destino di Milano si è già  deciso in periferia, per esempio a via Padova. La casbah, il ghetto, il Bronx di Milano per le cronache. Nella realtà , un mondo in miniatura. Quattro chilometri, cinquecento negozi, cento più di corso Buenos Aires, 130 mila abitanti, ovvero un milanese su dieci, cinquanta comunità  straniere da tutti i continenti. Durante i mondiali di calcio dell’estate scorsa, con le bandiere di ogni colore, sembrava d’essere a New York. Una media città  italiana che per un anno e mezzo, dopo la rivolta del febbraio 2010 in seguito all’assassinio di un ragazzo egiziano alla fermata dell’autobus 56, è diventata la capitale della paura, il laboratorio del rancore politico contro gli immigrati. Con Maroni che schierava l’esercito per strada, il vicesindaco della Moratti, Riccardo De Corato che firma per il coprifuoco, l’assessore al decoro urbano, Maurizio Cadeo, che arriva a far oscurare le luminarie natalizie con gli auguri in inglese, cinese e arabo. Non bastasse, in campagna elettorale, gli strateghi della destra aggiungono il carico da novanta della «grande moschea» («Pisapia la farà  qui, dove sennò?») e della «zingaropoli» di via Idro. Il risultato, la risposta dei cittadini spaventati? In un anno, dalle regionali del 2010 al primo turno delle comunali, nei nove seggi di via Padova la Lega perde un elettore su quattro, il centrosinistra balza avanti di dieci punti, Berlusconi e lo sceriffo De Corato franano nelle preferenze.

Una piccola rivoluzione, come nel resto di Milano. Ma qui, nel laboratorio della paura cittadino, ancora più inattesa. Il giorno dopo è partito un ciclopico scaricabarile. La Moratti se l’è presa con De Corato, impegnato a imprecare contro la Lega, che nel frattempo attribuiva tutte le colpe alla latitanza del sindaco e, massì, «all’estremismo del Pdl». «Perché di colpo – spiega il Davide Boni presidente del consiglio regionale – quelli di Berlusconi, alla disperata caccia di voti, si son messi a fare i leghisti più leghisti di noi, con quelle trovate del piffero di smontare gli auguri di Natale». In mancanza di meglio, alla fine la destra milanese s’è inventata un altro, formidabile spauracchio da affiancare alla magistratura di sinistra. Ed ecco, dopo le toghe rosse, le tonache rosse. Pericolosa categoria di preti sovversivi che spazia dal cardinal Tettamanzi allo storico parroco di via Padova, il settantacinquenne popolarissimo don Piero Cecchi. Passando s’intende per don Virginio Colmegna, il sindaco dei poveri che secondo i berluscones avrebbe trasformato la casa della carità  in fondo a via Padova, mirabile esempio di solidarietà  e accoglienza, in un «covo di propaganda elettorale per Pisapia».
Una verità  un po’ più onesta la racconta uno dei tanti leghisti «smarronati», Alessandro Valsasina, presidente dell’associazione dei commercianti di «via Padova futura», fondata subito dopo la rivolta di febbraio, con la benedizione del Carroccio. «Premesso che non sono diventato di sinistra, tocca ammettere che Pisapia è partito dalle periferie. Qui passava ogni settimana e ascoltava tutti, mentre la Moratti l’abbiamo vista soltanto in tv a fare promesse». Cinque anni di promesse, il recupero del parco del Trotter, che era una promessa elettorale già  ai tempi di Pillitteri, le piste ciclabili, i bellissimi progetti da archistar per il rilancio delle periferie, i poliziotti di quartiere, la lotta ai racket e così via, per cinque anni.
Ma nel terremoto elettorale delle periferie milanesi non ci sono soltanto gli errori degli strateghi della destra o l’abilità  di un candidato della sinistra che finalmente mette il naso oltre la fatidica cerchia dei Navigli e per giunta è proprio di sinistra, non un prefetto, un industriale o un tardo imitatore dei leghisti con la fissa dei campi rom. La ribellione di via Padova alla paura ha radici più profonde, che rivelano il limite ultimo del berlusconismo. Quella presunzione di volere e potere cambiare la natura dei milanesi, degli italiani, oltre ogni limite, azzerando di colpo la storia. Prima o poi la storia di questa città , perfino di questa via, si sarebbe ribellata alla falsa immagine nello specchio. Gli anziani di via Padova ricordano ancora i partigiani in sfilata il 25 aprile e il corteo degli operai di Sesto che andavano quattro giorni dopo a piazzale Loreto, per vedere il cadavere di Mussolini. Negli anni ‘50 e ‘60 via Padova era il ponte d’integrazione degli immigrati del Sud, la prima tappa dalle coree verso la conquista del benessere cittadino. Un passaggio che in altre città , Torino per esempio, non c’era, un luogo d’incontro e di solidarietà , una rete di associazioni, un quartiere vero, un fiore all’occhiello per i sindaci riformisti milanesi. Una periferia dove le scuole erano buone come quelle del centro, con le prime elementari montessoriane e il liceo di zona, il Carducci, che valeva come i più rinomati Berchet e Parini della borghesia; le librerie e i centri culturali e i circoli sportivi; perfino il cineforum dove vedevi Ferreri e Bunuel senza doverti travestire da intellettuale di sinistra come al mitico Obraz cinestudio; bei ristoranti e negozi, la gente in strada fino a notte. Di tutto questo paesaggio della Milano più aperta e vitale, oggi è rimasto a via Padova soltanto il parco Trotter, una scuola modello per mille bambini, dei quali seicento di cognome straniero, la più multietnica d’Italia e uno dei luoghi d’infanzia più belli e verdi di Milano, l’unica a prevedere una fattoria didattica e una piscina fra gli alberi. Una magnifica istituzione pubblica che tira avanti grazie al sacrificio degli insegnanti, al volontarismo degli «Amici del Trotter», alla passione dei genitori che ridipingono le classi e riparano i cessi nel fine settimana. Qui gli impresari della paura hanno spedito le camionette dell’esercito a pattugliare le notti vuote. Pisapia e i suoi sono venuti invece in bicicletta e sono tornati con le ventotto pagine di progetto del parco da affidare all’architetto ed ex rivale Stefano Boeri. Fra una finzione di Bronx blindato e un progetto di parco giochi per bambini, forse non ci volevano tanti spin doctors per capire dove sarebbero andati i voti.

 

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