by Editore | 22 Maggio 2011 6:59
E siste una libertà alternativa alla nostra, un modello non occidentale che possa sfidarci? “I confini della libertà economica”, per noi evocano limiti e regole che occorre dare al mercato in nome di valori superiori: la salute, l’ambiente, i diritti inalienabili del cittadino. Ma i confini della libertà economica possono anche rappresentare la nuova geografia dello sviluppo, un mondo di cui sono protagoniste nazioni in ascesa, dove l’idea di libertà si declina in modi diversi. L’Occidente rimpicciolisce e si ritira di fronte al dinamismo dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Sempre più spesso i Bric si alleano per restringere la nostra “libertà ” di imporre l’agenda della governance globale, o le regole del gioco del commercio internazionale. Ma all’interno dei Bric si distinguono modelli molto diversi. La Cina, che fonde il capitalismo col potere monopolistico del partito comunista, non ha mai abbandonato l’idea marxista secondo cui la libertà dal bisogno conta più di tutte.
Alle prediche occidentali su libertà politiche, libertà di espressione, diritti umani, la Cina ribatte sottolineando il suo bilancio: dalla svolta capitalista di Deng XiaoPing nel 1978, la Repubblica Popolare ha liberato il popolo più numeroso della terra dallo spettro delle carestie. Ha sconfitto l’analfabetismo. Ha aumentato la speranza di vita portandola al livello degli Stati Uniti. Ha ridotto la mortalità infantile, che oggi a Shanghai è inferiore a quella di New York. Più di recente, nel corso della crisi del 2007-2009, la Cina ha difeso la libertà di lavorare: con un vigoroso intervento del suo governo, azionando le leve del capitalismo dirigistico di Stato (credito bancario, investimenti in infrastrutture), Pechino ha evitato la recessione. I giovani cinesi in possesso di un titolo di studio della secondaria superiore o dell’università , hanno oggi maggiori chance di accesso al lavoro rispetto ai loro coetanei europei o nordamericani. Questo è il bilancio di un modello di sviluppo “liberatorio”, che i governanti cinesi oppongono a chi contesta la mancanza di altre libertà e altri diritti: per esempio il diritto di organizzazione sindacale e di sciopero (che, curiosamente, la destra americana sta abolendo in diversi Stati Usa dove governa, a partire dal Wisconsin).
L’India rappresenta a sua volta un’alternativa possibile, una terza via, e la confutazione del teorema cinese secondo cui vaste nazioni emergenti di quelle dimensioni e con tante sacche di miseria al loro interno esigono metodi di governo autoritari. L’India mette a segno da anni una crescita “quasi” cinese, mediamente attorno all’otto per cento annuo, senza mettere la museruola alla libertà d’informazione e di dissenso, consentendo libere elezioni, alternanza di governo, uno Stato di diritto, una magistratura indipendente. E tuttavia anche l’India si guarda bene dall’adottare in toto un’idea “americana” di libertà economica: per esempio rifiuta che i mercati finanziari siano liberi di speculare sulle quotazioni delle derrate agricole.
Il Brasile è un modello quasi unico di socialdemocrazia in un’economia emergente. È riuscito laddove hanno fallito sia la Cina che l’India: nel bel mezzo di una fase di boom economico e di apertura ai mercati globali, ha ridotto le diseguaglianze. È la sola nazione di quelle dimensioni dove la distanza tra ricchi e poveri si è ridotta anziché allargarsi. Da Cardoso a Lula a Dilma Roussef, le politiche sociali brasiliane hanno posto un limite alla libertà dei ricchi di spiccare il volo allontanandosi dal resto della comunità nazionale.
L’Indonesia, quarta al mondo per dimensioni demografiche, è la più vasta nazione con una maggioranza di musulmani. Agganciata al decollo dei Bric, con un governo democratico, ha dimostrato che non c’è incompatibilità fra Islam, mercato, libertà di culto e d’opinione.
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