Ma l’America resta nel suo labirinto

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Ma che non lascia facilmente chi vi si avventura. Più che aprire nuovi orizzonti, l’esecuzione di Osama simboleggia il fallimento dell’opzione bellica perseguita da George W. Bush nei primi sei anni della sua presidenza, e che Obama non è riuscito a correggere. Di quella convinzione secondo cui all’11 settembre l’America non poteva rispondere che dispiegando la sua ineguagliata potenza militare per sradicare il Male e affermare l’Impero della Libertà  (Jefferson). Per la prima volta nella storia la potenza dominante, invece che difendere il sistema internazionale sul quale era egemone, cercava di rovesciarlo. Rispondendo alla chiamata di Dio e aderendo alla “direzione della storia” (Bush, in vena hegeliana), che indica agli Stati Uniti la missione di eliminare la tirannia nel mondo. Le campagne d’Afghanistan e d’Iraq erano solo le prime due tappe della redenzione dell’umanità . La guerra non doveva solo smantellare le cellule del terrore, ma i regimi che le proteggevano. Nel caso, i taliban e – secondo Bush – Saddam. Grazie alla trionfale esibizione di forza tra Hindu Kush e Mesopotamia, si sarebbe prodotto un effetto domino per cui, nel tempo, i tiranni si sarebbero arresi uno dopo l’altro alla forza del Bene. Dieci anni dopo, che cosa resta di tale visione? Per azzardare un bilancio di questo lunghissimo decennio, occorre resistere alla tentazione di scavare dietro i misteri che hanno accompagnato la fine dell’architetto dell’11 settembre. Non sapremo mai tutta la verità  sui fatidici minuti del raid di Abbottabad. E possiamo star certi che fra qualche secolo vi sarà  chi giurerà  che Osama Bin Laden non è mai morto, ma si nasconde da qualche parte fra Terra e Cielo in attesa dell’ultima ora. Lasciamo i dietrologi alle loro esercitazioni, non perché non siano legittime, ma perché inutili. Peggio: devianti. Ci impediscono di guardare alla sostanza. La valutazione strategica della guerra al terrorismo implica invece di rispondere a una domanda: che cos’era l’America il 10 settembre 2001, e che cos’è oggi? Dieci anni fa l’America era la “superpotenza solitaria”. Vittoriosa nella guerra fredda e nelle due precedenti guerre mondiali. La prima economia, la primissima potenza militare, soprattutto la massima potenza soft. Termine con cui si intende la capacità  di ottenere ciò che si vuole dagli altri soggetti della scena internazionale senza dover impiegare la forza. Qualcosa di simile alla gramsciana “egemonia”. L’America oggi resta la prima economia. Quasi tutti gli esperti concordano però sul fatto che il sorpasso cinese sia questione di anni, non decenni (il che non vuol dire che accadrà , viste le normali performance degli esperti). Ma a differenza di dieci anni fa, gli Stati Uniti sono indebitati fino al collo, soprattutto con la Cina. Quanto può essere dominante una potenza il cui massimo creditore è anche il suo concorrente principe? Una delle radici del debito Usa sta nella sovraesposizione militare. I costi della guerra al terrore avvicinano secondo il Congresso i 1.300 miliardi di dollari, ma è una stima conservativa. Le campagne di Bush e di Obama sono state finanziate da Pechino, che naturalmente è stata ben felice di farlo. Perché? Lo spiega Hillary Clinton: «Come fai a essere duro col tuo banchiere?». In termini globali, è dunque la Cina ad aver vinto, per ora, la guerra al terrore. A spese dell’America e di noi altri occidentali. I rapporti di forza nel mondo sono espressi dal pauroso indebitamento dei dominatori del Novecento nei confronti dell’Asia riemergente. Nel decennio della guerra al terrorismo, la Cina è tornata ad esprimere il 25% della crescita mondiale, quanto valeva a inizio Ottocento, prima di perdere il treno della rivoluzione industriale e di essere umiliata nelle guerre dell’oppio. Le perdite più rilevanti nella guerra al terrorismo l’America le ha però subite quanto a potenza materiale (hard) e immateriale (soft). A che serve la strapotenza militare se non a vincere le guerre? Washington non riesce nemmeno a terminarle. E se pure gli Stati Uniti mantengono una formidabile capacità  tecnologica – ma la Cina si avvicina anche in questo campo – e un’ammirevole produzione culturale, non sono più in grado di esercitare quel soft power un tempo incarnato nel “Washington Consensus”. Certo sarebbe ingeneroso attribuire alla sovraesposizione imperiale di Bush la responsabilità  unica del declino americano. Ma non c’è dubbio che per sfortuna del suo paese – e di noi europei occidentali, che della protezione a stelle e strisce abbiamo goduto per i migliori decenni della nostra modernità  – quella Casa Bianca sia caduta nella trappola dei terroristi islamici. Esemplificata nel “messaggio al popolo americano” indirizzato nell’ottobre 2004, via Aljazeera, dallo stesso Osama: «E’ stato facile provocare quest’amministrazione e portarla là  dove noi volevamo; ci basta mandare in Estremo Oriente due mujaheddin a sollevare una banderuola di al-Qaida perché i generali vi si affrettino, aumentando così le perdite umane, finanziarie e politiche (…). Abbiamo imparato a condurre la guerriglia e la guerra di logoramento contro le superpotenze inique. (…) La Casa Bianca e noi operiamo come una stessa squadra che ha come scopo di segnare punti contro l’economia americana, nonostante le intenzioni siano differenti». Per Barack Obama, la morte di Osama Bin Laden ha un valore tutto simbolico. Deve approssimare la fine della guerra al terrorismo, termine che peraltro ha già  messo in naftalina. Non riuscendo a finirla materialmente, Obama deve lavorare sull’immaginario. Se non può vincere, deve almeno convincere il suo pubblico di essere sulla buona strada per farlo e cominciare a riportare i ragazzi a casa. Per occuparsi delle faccende serie, dall’economia alla Cina (la stessa cosa). Il problema è che il messaggio forse funziona con gli americani, molto meno con pakistani, afgani e altri musulmani. Se un giorno i terroristi islamici saranno definitivamente sconfitti lo dovremo dunque ai musulmani che in questi mesi dimostrano di rifiutare il nichilismo jihadista e i regimi che l’hanno sfruttato per spillare soldi e status all’America. Gente di coraggio che noi, “guerra umanitaria” a parte, ci rifiutiamo di aiutare.


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