L’offensiva di primavera che minaccia l’Occidente
Sarà , ma nei conti c’è qualcosa che non torna e il mito del successo che giustificherebbe il ritiro è sempre più appannato. Non torna il fatto che in Afganistan ci siamo da 11 anni e quelle che erano considerate aree tranquille sono colpite con facilità non dal solito colpo di mortaio, ma da attacchi coordinati in varie aree e con l’integrazione delle azioni suicide con incursioni di vera e propria guerriglia urbana. La tecnica di Lahore e Mumbai sembra aver fatto scuola e, soprattutto, sembra che gli attaccanti si siano stufati di passare per terroristi e vogliano essere qualificati come combattenti. Non torna che di fronte alla prospettiva concreta di una guerra fuori controllo stiamo ancora parlando di missione umanitaria. Non torna che in una zona che fino a non molto tempo fa gestivamo con relativa sicurezza i ribelli possano organizzare attacchi occupando i tetti delle case di nostri amici e conoscenti. Non torna che tutto questo accade quando la forza militare di Isaf è decuplicata e le operazioni condotte sono sempre più violente e sanguinose. Non torna che consideriamo l’offensiva di primavera come un evento meteorologico ricorrente senza capire il vero cambiamento “climatico”.
Senza capire che l’equilibrio generale delle forze e delle volontà è profondamente cambiato in tutto l’Afganistan. Per questo non torna neppure il conto della scelta, giusta in altri tempi, di “stare in mezzo alla gente”: come se fossimo a Roccacannuccia.
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