«Le mie operaie ora sono dirigenti»
Il telefonino è sempre lì. Totem, feticcio, ancora di salvezza, casa, proiezione del futuro e delle sue infinite possibilità . La Cina corre rapida, certi dettagli di un libro pubblicato nel 2008 non sono inevitabilmente più gli stessi, ma alcuni pilastri non si spostano. E allora, se in «Operaie» Leslie T. Chang mostrava come il cellulare fosse il perno dell’esistenza e della scommessa di riscatto delle lavoratrici di Dongguan, oggi — un pugno d’anni e una crisi economica dopo— è ancora così. Esattamente così. «Tutto passa dal telefonino. È ancora uno strumento di sopravvivenza essenziale» , racconta al Corriere la scrittrice: in questo la Cina delle sue operaie non è cambiata. Neppure i destini delle ragazze di cui la scrittrice americana divenne amica durante la sua frequentazione di Dongguan — la città che più di tutte è diventata il simbolo del lavoro dei migranti e del modello produttivo del «made in China» — hanno subìto sterzate vertiginose: sono evoluti, certo, ma la traccia è quella segnata. «Siamo sempre rimaste in contatto. Di loro due, una ha cambiato sei o sette lavori; oggi dirige l’ufficio vendite di un’azienda di piatti di plastica. Cene coi clienti, quella vita lì, cose tremende. L’altra vive col marito in un villaggio a un’ora da Changsha» , il capoluogo dell’Hunan. La loro vita, però, non sanno ancora come Leslie l’ha raccontata. «Ho firmato un contratto per una traduzione di “Operaie”a Taiwan. Finalmente le “Operaie”potranno leggersi…» . Leslie T. Chang ora vive in Colorado, ha due gemelli piccoli. Suo marito è lo scrittore Peter Hessler, a sua volta autore di libri d’argomento cinese. La Cina li bracca fin dentro le loro vite. Lo stesso «Operaie» incrocia il reportage-racconto con il «memoir» familiare, con le sue radici cinesi: «Il focus del mio lavoro erano le lavoratrici migranti, ma le ricerche sulla mia famiglia mi hanno aiutato a capire Dongguan e a creare un contesto storico» . Nel frattempo, però, la Repubblica Popolare non è già più quella di quando la Chang pubblicava le sue corrispondenze per il Wall Street Journal, e neppure Dongguan è la stessa: «La crisi del 2008-2009 ha avuto un impatto forte su quella città . Fabbriche che si svuotavano, che chiudevano, lavoratori che rientravano ai villaggi. Gli operai sono stati assunti in fabbriche dell’interno. Le loro esistenze materiali non sono mutate, la gente continua a guadagnare, e così via. Certo, sono meno lontani da casa rispetto a quando si spingevano fino a Dongguan» . La leadership cinese, intanto, ha varato il nuovo piano quinquennale che dà enfasi al consumo interno. Ma per la Chang, «senza entrare nello specifico, le decisioni del governo non hanno effetto sui lavoratori migranti. Non se ne occupa, semplicemente. E la produzione industriale, se anche mira ai consumatori interni, non riguarda certo i migranti» . I risultati del censimento, diffusi a fine aprile, mostrano che la popolazione cinese è ormai divisa a metà fra città e campagne, «tuttavia il trend degli spostamenti dalle aree rurali a quelle urbane non cambierà , perché i villaggi presentano tuttora pochissime opportunità » . La Cina non è la mecca del lavoro a basso costo. «Non lo è da anni. Quando parli con i dirigenti di uno stabilimento, te lo spiegano bene» , dice la Chang. In altri Paesi, dal Bangladesh al Vietnam, «la manodopera è più a buon mercato. Ma in Cina gli operai sono più efficienti e affidabili, dunque più convenienti anche se più cari che altrove » . Gli scioperi nel Guangdong, ma non solo, che nel 2010 hanno suscitato attenzione ed (eccessive) speranze sui media internazionali, si collocano in questo quadro. «Erano manifestazioni genuine. E il governo è entrato agendo come mediatore fra azienda e lavoratori, secondo un modello sperimentato da almeno 5 anni. La leadership sa che se gli operai si lamentano hanno ragione a farlo» . La Cina dispiega dinamiche tutte sue, «in virtù della velocità della sua crescita e della scala dell’impatto sociale» , aggiunge la scrittrice, e «si assiste a una grande mobilità sociale. In città un migrante sa che in 5-6 anni può accedere alla classe media. Chi vive in Cina lo sa: le storie dei ricchi sono spesso storie di gente che non aveva nulla» .
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