L’ossessione di Osama “Colpite l’America voglio migliaia di morti”

by Editore | 13 Maggio 2011 6:48

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Come nei diari di un’adolescente impazzita per una stella del cinema che sa di non potere mai arrivare a toccare, ma alla quale pensa giorno e notte, la fissazione del profeta di Al Qaeda, dell’ispiratore di massacri globali, è quella nazione che lui vede al centro del proprio universo di odio: «Colpite gli Stati Uniti» ordina e annota a mano nelle pagine dei quaderni sequestrati dai commando americani fra casse di materiale digitale, carte, chiavette usb, dvd, dischi esterni e cd, bisticciando con i suoi luogotenenti, sempre per iscritto, che più prudentemente preferirebbero obbiettivi e vittime più “soft”, più facili, meno difese e che temono la reazione degli Usa. Capisce che la sua stessa creatura gli sta sfuggendo di mano, che i vecchi come lui, come il suo ideologo egiziano Al Zawahiri non lo seguono più con la stessa assoluta fedeltà , che il cervello di quel che rimane della offensiva cominciata dieci anni or sono sta passando ai giovani come Al Awlaki, nati e cresciuti proprio in quell’America dove lui non poté mai andare, annidati nella più ospitale penisola arabica, soprattutto nello Yemen, la AQAP, come viene definita nei rapporti di intelligenze: Al Qaeda Arabian Peninsula.
Non sa di Prodotti interni lordi e di debiti, di sfide cinesi o di “declinismo” americano, Osama Bin Laden. Nei suoi diari, decine di pagine, tutto ruota sempre attorno a quel “Grande Satana” che sta erodendo con i propri modelli di vita, il materialismo compiaciuto, la amoralità  atea e la potenza militare, quel regno dell’islamismo devoto, tradizionale e fanatico che lui vede vacillare. Chi sta leggendo le prime pagine del suo «caro diario», gli arabisti rinchiusi in una safe house, in un nascondiglio della Cia in Virginia, è sbalordito dalla fissazione maniacale di Osama per l’America, per i suoi simboli da abbattere come le Due Torri, per le sue ricorrenze e per i suoi riti.
«Dobbiamo rifare un 11 settembre – annota – per i dieci anni da quella data», «dobbiamo fare male, uccidere quanti più americani possiamo il 4 di luglio», la festa dell’Indipendenza, il giorno in cui la nazione celebra se stessa e la propria storia, tra picnic, retorica patriottica e fuochi artificiali.
Non ci sono calendari musulmani, nella sua testa, ma calendari del Nemico, degli occidentali, assimilati e interiorizzati, con immagini di festività  e di tragedie che doveva avere visto e rivisto maneggiando il telecomando del suo patetico sistema audiovisivo. Brulica, nelle sue parole, tutto il luogocomunismo antiamericano più datato, che somiglia alla propaganda dei giornali sovietici negli anni ‘60. «Puntate sulle popolazioni oppresse e sfruttate, sui neri e sui latino americani, perché si ribellino», esorta, perché nell’allucinazione della propria fobia non può, o non vuole, sapere che proprio i latinos sono oggi la parte più attiva e patriottica tra le minoranze, che sud e centro americani ormai guidano grandi aziende, entrano nella magistratura fino alla Corte Suprema, condizionano la vita politica, conquistano porzioni sempre più sostanziose della ricchezza nazionale. Mentre proprio un uomo di padre africano, e di cognome molto poco anglo come Barack Hussein Obama, si preparava a prendere il timone dell’intera nazione, mezzo secolo dopo l’assassinio di Martin Luther King, mentre lui scriveva.
Sono una visione, un progetto, un’ideologia spaventosamente elementare, ma non per questo meno micidiali, quelli che si intravedono dalle confessioni di Osama a se stesso, bruciate per sempre nella sua memoria la mattina per lui gloriosa e irripetibile dell’11 settembre. Ne sogna un altro, perché intuisce che soltanto la rivoltante spettacolarità  di quelle sequenze può rinverdire la fortune di una rete terroristica davanti a un mondo che inesorabilmente impara a convivere con la paura e che deve essere scosso, secondo la maledizione di ogni terrorismo, con colpi sempre più sensazionali. Eppure non sono più New York, l’isola di Manhattan, Washington con i suoi monumenti e palazzi del potere, gli obbiettivi, perché Osama è pazzo, ma non è stupido. Scrive e comunica attraverso i corrieri fidati, come un capo mafioso dal carcere o dalla latitanza, che i bersagli nuovi «dovranno essere piccoli centri provinciali, città  minori e meno difese», quindi più vulnerabili ed esposte, purché il numero delle vittime sia molto alto, per competere sui media globali con i tremila morti dell’11 settembre.
Mentre i servizi segreti americani ed europei, e i mezzi di comunicazione, agitavano ipotesi di minacce mostruose, a colpi di «bombe sporche» costruite con plutonio, rottami e chiodi da far esplodere a Times Square o a Piccadilly Circus per seminare più panico che morti, di «atomiche in valigia», i progetti affidati al «caro diario» sono infinitamente più ruspanti e rudimentali, e facili da eseguire. Immagina – racconta chi sta leggendo quegli scritti – treni passeggeri sviati con tronchi o detriti sulle rotaie, deragliati nei tunnel da traversine e rotaie divelte come in attentati da «Maquis» francese contro i convogli tedeschi, bombe convenzionali in scuole od ospedali, per ottenere il massimo effetto shock dunque il terrore. Ma non traccia, almeno nel materiale gigantesco esaminato finora che potrebbe costituire una «biblioteca degna di una importante università » secondo la Cia, di grandiosi progetti di islamizzazione dell’Occidente, come immaginavano i contro fanatici, strategia di Eurabie o di Amerabie.
Tutto quello che sogna quando vuole «uccidere molti americani con un nuovo 11 settembre» – scrive – è «fermare l’America, costringerla a ritirarsi entro i propri confini», a riportare via dal mondo arabo e dal mondo musulmano l’influenza peccaminosa del paganesimo e rimandare a casa quei “crociati”, quei soldati americani, che stavano, senza che lui lo sapesse, già  bussando alla sua porta. I suoi sono gli scritti e i diari di un uomo sconfitto e vecchio, che sospetta di avere fallito nell’eterna illusione di far saltare l’America sopra le sue infinite contraddizioni interne, usando la morte di massa dove l’ideologia e la politica avevano fallito. Si ha, leggendo questi frammenti, la sensazione che, mentre noi tremavamo al pensiero del terrorismo islamico, fosse Osama Bin Laden ad avere più paura di noi e di quello che noi rappresentiamo.

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