L’Onu: “Washington chiarisca il blitz” . Gli Usa: “Accanto a Osama c’erano armi”

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Un fucile mitragliatore Ak47, “Kalashnikov”, come lo chiamano nel mondo intero. E una pistola da guerra “Makarov”calibro 9×11. Due “ferri” di fabbricazione sovietica vecchi di vent’anni, della prima Jihad in Afghanistan, quando il nemico era Mosca e l’alleato la Cia. Nell’ultimo fotogramma della sequenza che, nella notte tra domenica 1 maggio e lunedì 2, ha messo fine alla vita di Osama Bin Laden, appaiono al terzo piano del compound di Abbotabad, «a portata di mano» dell’Emiro, armi di un’altra Storia, da cui pure è cominciata la parabola del Terrore islamico. Armi che i Servizi pakistani continuano a giurare di non aver mai trovato una volta arrivati nell’edificio, e che, al contrario, fonti del Congresso americano e del Pentagono ora sostengono siano la prova che dimostra come i Seals non abbiano avuto altra scelta che sparare per uccidere. Dice Dianne Feinstein, presidente dell’Intelligence Committee del Senato Usa (il comitato parlamentare che controlla l’attività  delle Agenzie americane e che ha raccolto lunedì scorso, in seduta segreta, la testimonianza del direttore della Cia, Leo Panetta, sui dettagli del blitz): «Al momento dell’irruzione al terzo piano del compound, Osama aveva quelle due armi a portata di mano e stava per afferrarle. Non c’era altra scelta che fare fuoco». Due i colpi esplosi dai commando pochi minuti prima dell’1 del mattino. Uno al cranio, poco sopra l’occhio sinistro. Uno al petto. Frontalmente e da breve distanza, tanto da fare scempio del bersaglio. Insomma, nessuna esecuzione dopo la cattura, come vorrebbero i ricordi della figlia di Osama. Ma la «risposta legittima e adeguata», «decisa in poche frazioni di secondo», da militari addestrati all’uso della “forza letale”, «impegnati in un’operazione di guerra» e non di polizia giudiziaria per la cattura di un latitante.

La terza “correzione” in tre giorni di uno dei dettagli cruciali del blitz (i frangenti dell’uccisione di Osama) aggiusta la versione ufficiale di fonte americana alle evidenze raccolte dai pachistani all’interno del compound. Conferma che la “preda” era disarmata. Ma in qualche modo prova a dare contenuto alla generica affermazione che «Bin Laden aveva tentato una reazione» e si libera della macroscopica inesattezza secondo cui «si era fatto scudo della moglie», la ventinovenne yemenita Amal Ahmed Abdul Fatah, pure ferita a una gamba. La terza “correzione” prova insomma a chiudere una crepa che con le ore si è fatta più evidente in Europa e ora anche nel palazzo dell’Onu. Dove i toni di soddisfazione delle prime ore (quando il segretario generale Ban Ki-moon aveva espresso «sollievo per la notizia della morte di Osama), ieri hanno cambiato di segno nelle parole dell’Alto commissario per i diritti umani, la sudafricana Navanethem Pillay. «Chiedo una piena e accurata spiegazione dei fatti. Perché le Nazioni Unite condannano certamente il terrorismo, ma hanno anche delle regole basilari su come l’attività  antiterrorismo deve essere condotta, rispettando la legge internazionale».
Ma la terza “correzione” diventa necessaria per la Casa Bianca e il Pentagono nel rintuzzare le fonti anonime dell’Isi, il potente e opaco Servizio segreto di Islamabad, che ancora ieri sono tornate a parlare di «esecuzione a sangue freddo». E, non a caso, il particolare dell’Ak47 e della Makarov, non è il solo ad arricchire la nuova ricostruzione dei 40 minuti più importanti della storia militare americana degli ultimi dieci anni.
La resistenza di chi occupava il compound – ecco la seconda novità  – si conferma «sporadica». Domenica notte, non c’è nessuna battaglia ad Abottabad, convengono ora Casa Bianca e Pentagono. L’operazione è fulminea. Allungata nei tempi solo dalla ricerca dell’archivio informatico di Al Qaeda, dalla perquisizione minuziosa di ogni angolo dell’edificio, prima di abbandonarlo. Dopo lo stallo di uno dei due elicotteri e il suo atterraggio forzato in uno dei due cortili del compound, le due dozzine di Seals impegnate nell’operazione devono vincere infatti la resistenza del solo Abu Ahmed al-Kuwaiti, il “corriere” con il van “Suzuki” bianco che la scorsa estate conduce inconsapevolmente la Cia da una trafficata periferia di Peshawar al rifugio in cui Osama si nascondeva da cinque anni. E che ora la stampa araba vorrebbe pedina di un complotto, di un “tradimento”, orchestrati nientemeno che dal numero due di Al-Qaeda, l’egiziano Ayman Al-Zawahiri, il Dottore.
Al-Kuwaiti affronta i Seals imbracciando un Kalashnikov con cui fa fuoco «una sola volta» dalla dependance dell’edificio che dà  sul cortile. Viene “terminato” in una manciata di secondi insieme alla donna che è con lui e con lui è stata svegliata dall’atterraggio improvviso dell’elicottero. I commando fanno quindi irruzione nell’edificio principale. L’uomo che gli si para di fronte e che verosimilmente sta cercando di raggiungere il cortile per capire cosa stia accadendo, è il fratello di Al-Kuwaiti. È disarmato, ma viene fulminato con un proiettile alla testa «nella convinzione che impugni un’arma». I visori notturni dei Seals inquadrano quindi una seconda sagoma maschile. Gira le spalle agli incursori e tenta disperatamente di guadagnare i piani superiori dell’edificio, lungo le scale interne. Anche lui è disarmato. È Khalid, il figlio di Osama. Viene abbattuto con un colpo che lo raggiunge alla nuca. Nelle stanze da letto della casa, tredici bambini, tra i 2 e i 12 anni, e almeno altre due donne piangono e gridano. I Seals raggiungono il terzo piano e la grande camera da letto che ne occupa buona parte. La scena madre può compiersi.
Amal, la moglie di Osama, – a voler stare ancora alla ricostruzione americana – si lancia verso i commando, che ora inquadrano lei e l’uomo che non le è troppo distante. Forse è un gesto con cui implorare pietà . Viene percepito come un’aggressione e uno dei Seals la fa stramazzare sul pavimento sparandole a una gamba. Forse Osama ha tempo di vederla cadere e contorcersi nel dolore. Forse ha il tempo per un’ultima parola o implorazione. O, molto probabilmente, non gli è rimasto un solo istante né per vedere, né per parlare. Quando muore ha il volto rivolto verso chi gli spiana le armi di fronte. Chi preme il grilletto vede accanto a lui una “Makarov” e un “Khalashnikov” (chi sa, forse quello dei proclami video dalle grotte di Tora Bora dopo l’11 Settembre). I fasci del puntamento laser di due armi diverse gli illuminano contemporaneamente il torace e il sopracciglio sinistro. È finita.


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