L’Italia unita nel marmo

by Editore | 22 Maggio 2011 6:07

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Roma, 4 giugno 1911. Da quasi tre mesi è scaduto il cinquantenario dell’Unità , e il nuovo Stato vive una solenne celebrazione. «Il Popolo della Capitale», scrive il Corriere della sera, «leva il suo clamore d’entusiasmo intorno al monumento di Vittorio Emanuele II», che «ferma nel bronzo della gloria il Re, cavalcante lungo il libero paese». E qui un sia pur alato cenno contabile: «Siano bene spesi i molti milioni. Il vasto monumento duri nei secoli». Severo il controcanto dell’Avanti!. Allo spettacolo delle «redingotes e dei cilindri fiammanti» indossati da nobili e alti burocrati, l’organo socialista oppone l’arrivo, in piazza Venezia, per la solenne inaugurazione, della «scuola dell’Agro Romano, composta di contadini e contadine. Questi dimenticati martiri della gleba» esprimono «tutti i dolori del passato e le promesse dell’avvenire». 
Dal nome del Re, quel monumento si chiamerà  «Il Vittoriano». A contemplarlo, quella mattina d’un secolo fa – con i suoi 17.500 mila metri quadrati, 81 metri d’altezza per 120 di larghezza, il tutto progettato dall’architetto Giuseppe Sacconi, e al centro la statua equestre del Sovrano, scolpita da Enrico Chiaradia – può apparire un innocuo mastodonte. Ma la sua storia è già  lunga. È del settembre 1878 la legge che ne ordina l’esecuzione. Un’altra legge indirà , nel 1880, un concorso mondiale. L’edificio, si legge nel bando, riunirà  «tutte quelle bellezze che il grande soggetto deve ispirare» e «del Re Vittorio Emanuele dirà  le gesta in una sintesi gloriosa». Il letterato e architetto Camillo Boito già  vi scorge l’«affermazione marmorea e bronzea» dell’Unità . La spesa non deve eccedere i nove milioni di lire, ma alla fine li supererà  con larghezza. I concorrenti sono oltre trecento. Numerosi. Fantasiosi. 
S’intitola I mattoidi al primo concorso pel monumento a Vittorio Emanuele II un volumetto firmato nel 1884 da Carlo Dossi. Partecipano «maestri di grammatica e di matematica, dottori di medicina e di legge, militari, un impiegato telegrafico, un ragioniere, nonché altri che dichiarano di non aver maneggiato né scalpello né seste». Chi disegna piramidi, chi torri, cupole, minareti. Assai più di recente, 1998, il libro di Bruno Tobia L’altare della Patria racconterà  lo «spudorato saccheggio», che molti candidati vagheggiarono, «di celebri monumenti antichi», e cioè «moli adriane, piramidi, tombe di Cecilia Metella, colonne traiane, archi di Tito e di Costantino». Un caso limite di progettazione venne toccato dal signor Giovanni Canfora di Barletta con il monumento intitolato Manus Domini, il quale mostrava appunto una gigantesca mano: «Il pollice sta a significare Pio IX, l’indice Carlo Alberto, il medio Vittorio Emanuele, l’anulare Umberto I e il mignolo Vittorio Emanuele, principe di Napoli», il piccolo, futuro Re sciaboletta. In un suo trattato, La patria di marmo, Marcello Venturoli ha inoltre rivelato alcune denominazioni attribuite ad opere in marmo o in bronzo che effigiavano il Re e la sua dinastia: i «Sabaudioni», gli «Emanuelioni». 
A giudicare da simili racconti, con il Vittoriano quale ora lo vediamo c’è andata perfino bene, anche se tutti ricordano le definizioni che se ne sono date nel tempo, dalla «dentiera» alla «macchina per scrivere», fino a quella, più drastica e scurrile, che formulò Giovanni Papini: «il pisciatoio di lusso». E come dimenticare la sentenza di demolizione – mai eseguita, ed è stata in fondo una fortuna – che decretò a suo danno l’urbanista Bruno Zevi? 
Quello che condurrà  alla finale scelta del progettista – che sarà  il conte Giuseppe Sacconi, meno che trentenne, di distinta famiglia marchigiana, nipote d’un cardinale e non ancora laureato in architettura – è il secondo concorso, reso pubblico il 18 dicembre 1882, e concluso nell’84. Esso prevede che il monumento sorga sull’altura settentrionale del Campidoglio in asse con via del Corso. Lo comporranno tre parti: la statua del Re, una spianata a ventisette metri d’altezza connessa a piazza Venezia da ampie scale, e un fondo edificato a lato del tempio dell’Ara Coeli. La scelta del Campidoglio originò dure polemiche. Una larga fascia d’opinione, capeggiata dal parlamentare Ruggero Bonghi, propendeva per piazza Termini: meno impegnativa sul piano della retorica – massimo pericolo, sosteneva Bonghi, era confondere «glorie nuove con glorie antiche» – urbanisticamente meno offensiva e tale da risparmiare ingenti spese per la demolizione delle molte vestigia classiche esistenti intorno al Colle. Alla fine venne confermato il Campidoglio, anche per l’insistenza del presidente del Consiglio, Agostino Depretis.
Per vent’anni – dal 1885 al 1905, data della sua morte prematura – Sacconi lavorò al progetto tra gravi difficoltà  tecniche, soprattutto connesse alla ricerca sotterranea di quello strato di tufo destinato a sostenere le immani fondazioni della struttura, tutta in marmo “botticino”. A lui, deputato fra il 1884 e il 1902, fu inflitta una crudele amarezza: veder uscire vincitore, dal concorso indetto per la statua equestre del Sovrano, lo scultore Enrico Chiaradia, nativo di Caneva (Pordenone) in luogo dell’artista che egli preferiva, Nicola Cantalamessa-Papotti, marchigiano come lui. «Il cavallo del Chiaradia non salirà  mai in Campidoglio», ecco la fallace profezia che Sacconi pronunciò. Le dimensioni del destriero di Chiaradia, altezza dodici metri, possono contenere nel proprio ventre trentacinque persone. Un gruppo di operai venne fotografato mentre vi faceva merenda. Il Cantalamessa, autore del bozzetto scartato, viene ricordato per una quartina che scrisse a disonore del bronzo scolpito da Chiaradia: «Il Re a cavallo era il gran soggetto / ma il capo d’opra fu aspettato invano. / Nacque solo un cavallo da carretto / per il gran monumento sacconiano». Il quale monumento sarebbe poi diventato, una volta trasferite a Roma nel 1921 le spoglie del Milite ignoto della Grande Guerra, il luogo di rito per ogni cerimonia patriottica, sia in epoca di monarchia o di fascismo che, più tardi, di Repubblica. Un futuro che, quel 4 giugno di cent’anni fa, i romani accorsi in piazza Venezia con il vestito della festa non prevedevano.

 

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