by Editore | 15 Maggio 2011 7:16
MISURATA – Alcuni soldati fedeli a Muhammar Gheddafi hanno dichiarato, dopo essere stati catturati, che l’esercito e le milizie del colonnello, che da più di due mesi combattono i ribelli che vogliono far cadere il leader libico, sono indeboliti da ufficiali attenti solo ai propri interessi, da unità logistiche stanche e da truppe frettolosamente rinforzate con cadetti inesperti.
Durante gli interrogatori, svoltisi questa settimana in un centro di detenzione dei ribelli che ospita più di 100 prigionieri dell’esercito libico, i prigionieri hanno ripetutamente descritto le difficoltà sul campo, raccontando anche degli ufficiali che li hanno traditi o non sono stati in grado di fare il loro dovere. Hanno parlato amaramente della loro sorte. Da una parte, le unità militari e le milizie libiche sono andate in guerra con un buon equipaggiamento e avvantaggiate da un punto di vista organizzativo, con carri armati, con veicoli blindati per il trasporto delle truppe, con l’artiglieria, con i razzi e grandi depositi di munizioni. Dall’altra, il ministro libico della Difesa ha ingrossato i ranghi richiamando in servizio veterani non in buone condizioni fisiche e cadetti quasi totalmente privi di addestramento o di esperienza. Poi, dopo aver subito settimane di attacchi aerei e aver visto crescere le forze ribelli, alcune di queste unità sono rimaste isolate, hanno detto i prigionieri, e gli ufficiali hanno disertato.
«I comandanti ci hanno detto: ‘Restate qui, torneremo con più munizioni’», ha raccontato un cadetto, sostenendo di essere stato costretto ad arruolarsi come fante, il mese scorso, senza un minimo di preparazione, e di essere stato assegnato a combattere nel centro di questa città . «Ma non sono più tornati. I ribelli ci hanno circondato e abbiamo dovuto deporre le armi e andare via».
Altri prigionieri hanno descritto il costante tradimento dei loro ufficiali. Un prigioniero, membro della 32esima Brigata del popolo armato, un’unità spesso definita di élite, guidata da Khamis Gheddafi, uno dei figli del colonnello, dice che faceva parte del terzo contingente della Brigata spedito da Tripoli a Misurata. Il soldato catturato ha una cicatrice sulla mano, indossa un paio di jeans e una t-shirt grigia con la scritta «King of the Town», e racconta che i suoi superiori gli hanno mentito sempre, dicendogli che lo mandavano a reprimere una jihad ispirata dagli stranieri. «Quando siamo arrivati abbiamo sentito i combattenti che urlavano in continuazione ‘Allah u akbar!’», dice. «Gli ufficiali ci hanno detto che il nemico era Al Qaeda e altri gruppi terroristici venuti dalla Siria e dalla Tunisia. Ma noi abbiamo visto che erano libici». Il soldato dice di non essersi messo l’uniforme per uccidere dei libici e, dopo aver sentito i mortai di Gheddafi che sparavano sulla città con bombe a grappolo, è scappato e si è nascosto in un negozio. Qui ha aspettato che si avvicinassero dei ribelli e poi si è arreso. Altri prigionieri dicono di essere stati richiamati alle armi dopo aver lasciato l’esercito due anni fa, e di essersi accorti una volta in battaglia che c’erano dei ritardi nell’evacuare i soldati feriti. Un uomo ricorda che nel combattimento per il controllo della via Bengasi, uno dei fronti della città , tre dei suoi amici sono stati uccisi e tre feriti. I feriti hanno dovuto aspettare tre o quattro giorni prima di essere portati via.
Il centro di detenzione dove risiedono attualmente questi prigionieri era una delle scuole pubbliche di Misurata. I prigionieri dormono su dei materassi e hanno le coperte, un cambio di vestiti e poco altro a parte l’essenziale per lavarsi. Hanno anche degli opuscoli religiosi e il Corano, forniti dal loro direttore di fatto, uno sceicco, il quale dice che anche se Misurata era contro il colonnello Gheddafi, alcuni di questi uomini sono stati costretti contro la loro volontà ad arruolarsi e per questo devono essere trattati in modo civile e rispettoso. Non è stato così per tutti. Molti sono stati duramente picchiati, al momento della cattura dai ribelli. A diversi hanno sparato ai piedi – un crimine praticato sugli uomini catturati, per impedire ai prigionieri di opporre resistenza o di fuggire. Ci sono indizi che fanno pensare che la vita in prigione abbia influenzato le dichiarazioni di questi uomini. Sei prigionieri diversi, interrogati separatamente e in privato su come fossero stati feriti ai piedi, hanno dato risposte evasive e due di essi hanno detto semplicemente e con disagio «Non me lo ricordo».
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