by Sergio Segio | 31 Maggio 2011 10:18
MILANO – Due novità di carattere socio-politico hanno tenuto banco in queste settimane a Milano ed entrambe hanno in qualche misura accompagnato la vittoria di Giuliano Pisapia. Il radicale pronunciamento di settori della borghesia più tradizionale e (soprattutto) lo spostamento di consensi dentro il lavoro autonomo, che pure aveva rappresentato storicamente una constituency del voto di centrodestra. La prima novità è stata scandita dalle interviste pro-Pisapia di diversi esponenti delle élite industriali e finanziarie e dalla nascita di un gruppo di saggi capitanati da Piero Bassetti. La seconda è stata fotografata da alcune analisi del voto del primo turno, realizzate dalla «Swg» per conto dello staff di Pisapia, analisi che segnalano come tra gli elettori laureati ci siano stati 30 punti di differenza a favore del centrosinistra e come tra i lavoratori autonomi Pisapia abbia sopravanzato la Moratti di ben 17 punti (tra i lavoratori dipendenti Giuliano stava sopra Letizia di 15 punti). A stare all’insieme delle elaborazioni «Swg» il centrosinistra avrebbe avuto dunque un elettorato più giovane, più colto, più inserito nell’attività produttiva mentre il centrodestra avrebbe presidiato meglio gli strati a bassa scolarità e più avanti con gli anni. Un’audience molto televisiva, viene da commentare.
Come si spiega questo che appare un vero e proprio ribaltone? Non è facile rispondere a caldo, però è probabile che sia in qualche maniera mutata la cultura di fondo dei professionisti, dei commercianti e delle partite Iva milanesi. La Grande Crisi che ha colpito questi strati, che ne ha tarpato le ali e evidenziato una condizione di debolezza in termini di protezioni sociali, può aver favorito una migrazione – non sappiamo quanto temporanea – da un orientamento prettamente «liberale» a una visione «laburista» della propria collocazione sociale. Anche da un punto di vista lessicale ormai siamo abituati ad accomunare un giovane avvocato o un architetto junior alla voce «precario», cosa che evidentemente sarebbe stata improponibile dieci o forse ancora cinque anni fa. Se dai giovani passiamo ad analizzare chi tra i legali, i commercialisti e gli architetti il lavoro ce l’ha vediamo che c’è sicuramente uno strato d’eccellenza (il 24%) che si è internazionalizzato e che dovrebbe aver risentito meno della crisi, ma il grosso (ben il 57%) lavora solo per la città o al massimo per la Lombardia. Mentre non si è ancora sviluppato un intenso rapporto con il resto del Nord.
Se focalizziamo la condizione di vita e il posizionamento delle partite Iva il senso di retrocessione appare ancora più evidente. Chi sceglieva la via del lavoro autonomo lo faceva in nome dell’indipendenza e di un certo gusto del rischio, oggi accade esattamente il contrario. Spesso si apre una partita Iva sotto il segno della dipendenza da un unico committente e della totale assenza di potere negoziale. Che c’entra Pisapia con tutto ciò? Soggettivamente forse poco e tutto sommato i temi del lavoro autonomo non sono stati certo centrali nella sua campagna ma il candidato-sfidante ha comunque usufruito della svolta laburista per affinità politica e in certa misura per una maggiore capacità di ascolto dispiegata attraverso il presidio dei social network. Il voto alla fine ha risentito di questa nuova composizione sociale, dei conseguenti slittamenti culturali e della disillusione nei confronti di alcune parole-chiave tipiche del centrodestra. Un caso a sé è il meccanismo della gestione separata dell’Inps, un tema molto sentito sulla piazza milanese. Si può far ricorso alla retorica del lavoro autonomo nei comizi e poi, pur avendo le leve dell’amministrazione comunale e provinciale, non avanzare nemmeno la più elementare delle proposte come quella di creare una «casa delle partite Iva» che fornisca a pagamento servizi e formazione continua?
Ma torniamo alla borghesia tradizionale. Sicuramente Milano è un terreno d’osservazione privilegiato per analizzare le trasformazioni del capitalismo italiano. Oscurato il ruolo delle grandi famiglie, in ribasso la stella della finanza dura e pura, il cuore del sistema ormai gira attorno alle grandi banche. Se le imprese milanesi una volta facevano la spola con Roma per il giro dei sette ministeri, ora nell’epoca della spesa-pubblica-zero tutto si sposta in banca. Torna a Milano e mostra l’inutilità dei partiti che stanno al governo. I criteri di finanziamento, la creazione delle reti di impresa, l’impostazione delle politiche di settore e di filiera via via tendono a passare dalle anticamere dei grandi player del credito. Se davvero come si dice Intesa e Unicredit dovessero cooperare per il rilancio delle infrastrutture del Nord, ciò diventerebbe evidente anche per quanto riguarda la trasformazione del territorio. E si realizzerebbe un’ulteriore perdita di ruolo dell’intermediazione della politica romana. Anche qui: che c’entra tutto ciò con Pisapia? Direttamente poco, ma spiega come tutte queste esperienze e culture non tendono più ad affluire nel centrodestra ma prendono le strade più disparate facendo mancare però linfa vitale all’asse Pdl-Lega. E determinando anche un distacco con la borghesia più tradizionale.
Lo stesso ragionamento vale per il ruolo delle fondazioni bancarie e anche qui la causa sta nella difficoltà di finanziare dal centro le politiche di welfare. Per dirla con Nanni Moretti di «Habemus Papam», c’è «un deficit di accudimento» da parte della politica nei confronti dei ceti urbani vulnerabili che invece nel momento del bisogno si trovano a fianco istituti della società civile, una rete di secondo welfare fatta di fondazioni, filantropia, volontariato, fondi privati. Ed è abbastanza evidente che le reti della solidarietà non presentano molti punti di contatto con il centrodestra, anche in virtù della fortissima e controproducente polemica scatenata a Milano dalla Lega contro il cardinale Tettamanzi, che ha dato vita proprio a un fondo di sostegno alle vittime della crisi.
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