La rivincita della piazza

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Per anni ci siamo cullati nell’idea che la piazza telematica avrebbe oscurato quella reale, ma gli ultimi avvenimenti rivelano che internet rappresenta un collante in grado di riportare l’agorà  al centro del dibattito pubblico. Non la piazza virtuale, bensì quella esistenziale che si riempie di corpi, di colori e di “sentimenti contro”, come l’indignazione e la rabbia.

L’ultima novità  propagata dalla rete globale è il movimento M-15 di Spagna che ha suscitato le ansie comparativiste di una certa Italia perché quei manifestanti sono contro il governo (meglio se socialista), sostengono di disprezzare i partiti e, soprattutto, dichiarano di non essere di sinistra né di destra formando così un impasto malleabile, buono da spendersi nelle nostre contrade del “né-né”. Assomigliano ai “grillini” – dicono – dimentichi del fatto che costoro si sono rapidamente costituiti in sigla organizzata intorno al loro furbissimo guru e ambiscono, legittimamente, oggi a occupare gli scranni comunali e, domani, quelli del vituperato parlamento. Quest’aspirazione a farsi subito partito, travestita col mantello del movimentismo anti-parlamentare, costituisce un abito nazionale dalla foggia antica ma sempre di moda. Eppure, si tratta di un proposito radicalmente diverso dalle buone intenzioni della gioventù spagnola, in cui il solo elemento di originalità  in comune con i “grillini”, ma anche con il “popolo viola” o con le recenti manifestazioni delle donne, sta nell’uso di internet come medium aggregativo mobilitante.
Certo, non bisogna mai smarrire il senso delle proporzioni. L’ultima volta che ci siamo indignati per davvero è stato quando abbiamo visto paragonare le piazze di Madrid a quelle di Bengasi, l’autunno spagnolo alla primavera araba. Come se fosse possibile mettere sullo stesso piano il costo di un sorriso arrabbiato a favore di videocamera con il sibilo di una pallottola in fronte sparata nel buio della repressione.
Piuttosto la piazza spagnola sembra un acquario in cui il conflitto è marginalizzato dentro un recinto che lo trasforma in inquietudine teatralizzata. I manifestanti sono consapevoli di avere subito un furto di presente e di futuro poiché si è rotta la rassicurante catena dell’hidalguà­a tra le generazioni: gli zii e i padri di quei ragazzi hanno abbondantemente mangiato sopra le loro spalle e la linea della vita lascia presagire che continueranno a pasteggiare ancora a lungo. In Spagna come in Italia. Non resta quindi che accucciarsi nel sacco a pelo del nostro scontento, gridando una rabbia e una paura che vivono in una dimensione anzitutto sentimentale ed emotiva. Come se fossero un tatuaggio, che segna un’identità  e consente di riconoscersi, nonostante tutto.
Il problema, però, rimane sempre lo stesso: come trasformare la protesta in proposta, come rendere quell’acquario di visibilità  autoreferenziale, amplificato dall’onda mediatica, un progetto collettivo conflittuale, che resti non violento? In questo sforzo si incontra necessariamente la mediazione della politica e – udite, udite – anche i partiti potranno svolgere un ruolo rinnovato se sapranno aprirsi e non chiudersi, respirando insieme e non contro la società  civile. Sarà  un caso, ma l’Italia si è bloccata da quando la società  civile e i partiti hanno iniziato a guardarsi in cagnesco, ognuno pensando di poter fare a meno dell’altro.
Come essere degni, ogni giorno sempre di più, della propria indignazione? Questa è l’autentica sfida che interroga la buona politica, a Madrid come a Roma, perché è legata agli affanni comuni della nostra democrazia e ci dice anche che, da quella rabbiosa speranza di piazza, si può sempre ripartire.

 


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