La ritirata FIOM e la “Deriva americana” dei bassi salari
E perché non sia stato infine raggiunto. Un’impuntatura sindacale per non depotenziare la causa giudiziaria contro le newco della Fiat? La tentazione aziendale di incastrare i “rossi” in un’alternativa diabolica: o perdere alle urne in una fabbrica dove tre quarti dei dipendenti sono iscritti Fiom oppure vincere con l’effetto di riconsegnarli al commissario dell’ex Bertone che non avrebbe potuto far altro che licenziarli? Fatto sta che il successo plebiscitario dei sì è stato propiziato dall’indicazione di voto favorevole al «contratto Fiat» data, pur senza condividerlo, dai delegati Fiom di fabbrica. È una svolta rispetto al muro contro muro che a Pomigliano e Mirafiori aveva lasciato i metalmeccanici Cgil in minoranza. La sua portata va oltre il recinto sindacale, all’interno del quale viene spiegata come atto di legittima difesa ovvero come ritorno a Canossa di chi, prima, non accettava compromessi in situazioni non troppo diverse. Il rientro nei ranghi della Fiom obbliga tutti a dirsi la verità : i leader sindacali di ogni colore e pure il top management. E la verità è che questi accordi sindacali allineano le condizioni delle maestranze dell’auto italiana ai livelli bassi tipici dell’America contrattualista, azzoppata dalla fede cieca nella finanza, e non a quelli alti, conquistati dalla Germania industriale con gli investimenti e la codecisione tra capitale e lavoro. Sono ormai inevitabili, ancorché non sufficienti, gli accordi alla ex Bertone come a Mirafiori e a Pomigliano. Ma il bilancio del sindacato come difensore dei lavoratori non diventa per questo positivo. Lo rivela in tutto il sistema manifatturiero la sostanziale stagnazione dei salari rispetto all’aumento della produttività . Lo conferma il costante scivolare delle ragioni dello scambio contrattuale dai lavoratori agli azionisti e al management nell’economia globalizzata e, in particolare, nelle multinazionali che scelgono dove produrre merci spesso liberate dalle vecchie radici geografiche. Probabilmente rimane impossibile spostare la Ferrari da Maranello. Ma le Panda si possono fabbricare sia in Polonia che in Campania. In queste condizioni, bene che vada, la difesa del lavoro si risolve in una ritirata strategica. E se l’impresa non è in grado di produrre in loco per i mercati avanzati (è il caso di Fiat tornata in Europa alle vendite scarse degli anni bui) la ritirata strategica rischia di trasformarsi in una rotta mentre la Borsa trova altrove ragioni per festeggiare. Nella moderna corporation il secolare conflitto d’interessi tra lavoro e capitale cambia in modo profondo: il primo resta fisico e perciò tendenzialmente legato ai luoghi e agli affetti, mentre il secondo, nella sua attuale versione finanziaria, inaridisce le radici territoriali dell’impresa originaria per favorire il flusso del denaro virtuale verso il massimo rendimento immediato. Se questo è il mare nel quale nuotano Marchionne, gli Agnelli e i lavoratori, le questioni di fondo diventano due. La prima è se i lavoratori possano ottenere risultati meno grami restando dentro schemi puramente contrattuali, poco importa se in versione aziendalistica o nazionale. Poiché nell’economia globalizzata il sindacato va perdendo il monopolio della forza lavoro perché vengono meno i confini entro il quale si formava, la risposta è negativa. La seconda questione è se la difesa del lavoro in Occidente sia un affare corporativo dei lavoratori o se, invece, coinvolga gli interessi generali dell’economia e, in ultima analisi, il livello di civiltà di un popolo. Se si opta per il primo corno del dilemma, amen. Se si opta per il secondo, allora entrano in gioco la politica economica e industriale e, con essa, il diritto per ridefinire i ruoli dei fornitori di capitale e lavoro nella grande impresa in una democrazia moderna.
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