La lezione araba all’occidente

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ISTANBUL – Il secondo atto della “primavera araba” odora più di bombe e di chiese bruciate che di gelsomini, e su come andrà  a finire l’estate non si fanno ancora previsioni; ma le trasformazioni che agitano il mondo arabo hanno già  qualcosa da insegnare all’Occidente. Cercare antidoti alla xenofobia e al radicalismo è il tema degli “Istanbul seminars”, una settimana di incontri organizzati da Reset-Doc e dalla Bilgy University di Istanbul tra accademici e studenti interessati a discutere di pluralismo culturale e di come esorcizzare la paura dell’islam. “I filosofi costruiscono un ponte sul Bosforo” è lo slogan del seminario intitolato “Come superare la trappola del risentimento”.

La primavera araba è stata (inaspettatamente) priva di risentimento verso gli attori esterni. Le folle nella piazza Tahrir o a Tunisi, a Sanaa o a Damasco non scandiscono slogan contro gli Stati Uniti o Israele, si rendono conto che le potenze esterne, sebbene spesso complici, non sono le uniche responsabili dell’oppressione, e capiscono quanto i propri leader abbiano beneficiato dal fatto che la rabbia dei cittadini fosse rivolta verso l’esterno. Smettere di proiettare all’esterno il risentimento e riconoscere le proprie responsabilità  è importante, per ragioni morali ancor prima che politiche. 
La rivoluzione araba – perché così, hanno insistito diversi partecipanti mediorientali, dovremmo chiamarla e non anodinamente “primavera” – è prima di tutto una rivoluzione morale, per questo si è diffusa con tanta rapidità , dice Kwame Anthony Appiah, un filosofo morale americano molto noto, professore a Princeton ma nato in Ghana, e autore di un’interessante etica politica, una dottrina delle istituzioni che sgrava i cittadini da eccessive aspettative di virtù. Appiah nega che l’identità  sia qualcosa di autentico e eterno, perora un patriottismo cosmopolita e la convivenza con il non identico. Il suo modello è l’impegno a un “dialogo morale” tra uomini e donne di società  diverse, il cui obbiettivo non è per forza il raggiungimento di un accordo. Possiamo restare di opinioni diverse, basta che il colloquio ci aiuti ad abituarci gli uni agli altri, dia tempo all’adattamento, consenta un modus vivendi. A prima vista sembra minimalismo filosofico ma la sfida che contiene è considerevole quando anche la minima controversia sulla costruzione di una moschea diventa una battaglia di civiltà .
Charles Taylor, uno dei più famosi filosofi viventi, professore emerito alla McGill University di Montreal e sostenitore da sempre del multiculturalismo, ritiene che sia la falsa coscienza per una politica d’integrazione tardiva o mai fatta a gettare discredito sul multiculturalismo, accusandolo di fallimento.
Bisogna cambiare paradigma perché siamo tutti reciprocamente vulnerabili, e solo collaborando possiamo sfuggire a questa vulnerabilità , dice Abdullahi An – Na’im, sudanese, professore alla Emory Law School. L’unica strategia è la reciprocità . Non possiamo andare avanti a parlare di “noi” e “loro”. E’ essenziale riconoscere che siamo tutti parte del problema, vedere le due facce della medaglia e rispettare le percezioni degli altri. Ma l’Occidente ricade sempre nello stesso “impulso imperiale” di dettare soluzioni. Alla fine, all’eterna domanda se l’islam possa convivere con la democrazia risponderanno i paesi della primavera araba e le riforme che gli ulema saranno capaci di farvi. Che i musulmani di quei paesi vogliano la libertà  lo hanno già  ampiamente dimostrato da soli, senza bisogno delle esegesi dei giuristi.


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