La felicità  è democratica. Realizzare i nostri sogni nella disciplina delle libertà 

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Anticipiamo un estratto da La felicità  della democrazia (Laterza)
EZIO MAURO. (…) Sei stupito se ti dico che la democrazia deve rispondere addirittura alla grande questione della felicità ?
GUSTAVO ZAGREBELSKY. Vuoi introdurre questo tema? Ti avverto subito ch’io, in materia, mi sento alquanto leopardiano. In ogni caso, «se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare». Comunque sia, procediamo pure e chiediamoci che cosa la democrazia abbia a che fare con la felicità .
MAURO. Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà  pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l’idea che la felicità  e la soddisfazione dell’individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il «regolamentarismo» e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità , invocando il «sonno della legge». C’è un singolare e arbitrario rovesciamento persino di D’Annunzio, come se andare a destra oggi significasse andare «verso la vita», mentre dall’altra parte ci sarebbe spazio solo per una fioca esistenza in bianco e nero, fatta di conformismo e senza sentimenti: un neopuritanesimo in grisaglia, che non sa amare la forza bruta della vita nella sua sregolatezza più feconda, nel caos rigeneratore che nasce dalla licenza e dall’eccesso, contro l’ordine regolare del mondo. È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell’urgenza e della necessità  si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l’esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà , il soverchio come nuova misura. Che felicità  può esserci quando, come scrive Durkheim, «si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente»?
ZAGREBELSKY. Tu cosa rispondi?
MAURO. Molto semplicemente che c’è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà , molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, «esseri che si somigliano» nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà  reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C’è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità , attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità  di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società  politica, istituzionale, di cittadini.
ZAGREBELSKY. Nell’essenziale, sono d’accordo teco, anche se la definizione della vita come felicità , o come possibilità  di felicità , secondo la tua descrizione, dovrebbe essere approfondita. Che cosa è la felicità , questo sentimento fugace che subito, appena l’hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità . La libertà  è felicità  o infelicità ? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà  è infelicità  e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l’umanità  dalla libertà , sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà , gli esseri umani si accontenteranno dell’unica felicità  loro possibile, una felicità  mediocre e bambinesca, l’appropriazione di cose materiali, la felicità  del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, già  citati. Io mi accontenterei di dire che, nell’appropriazione dei propri compiti di «individuo morale», nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità ? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità  era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà  nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà  come pretesa di fare tutto quello che si può (nel senso di ciò che è attualmente possibile), cioè con l’assenza di regole.
MAURO. Contrapponi l’éthos al pà¡thos, in qualche modo. Sei però d’accordo con me nel collegare democrazia e felicità ?
ZAGREBELSKY. Nel senso di soddisfazione per il dovere compiuto, sì. Credo che possa esserci una grande felicità  e forse anche noi, qualche volta, l’abbiamo provata. Ma non è certo la felicità  di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità  sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L’affamato di felicità  non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. L’archetipo è Faust che vende l’anima al demonio e il demonio, per quanti sforzi si facciano per adeguarsi ai tempi, non è propriamente l’immagine della virtù. Ammetto d’essere un pesce fuor d’acqua. Mi sento piuttosto leopardiano, come ho subito premesso quando hai impostato il tuo discorso.
MAURO. Cioè?
ZAGREBELSKY. (….) Mi riferisco a quel passo di Sigmund Freud contenuto in Il disagio della civiltà  dove si mette in rapporto di tensione felicità  e istituzioni (…) e che chiude così «L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità  di felicità  per un po’ di sicurezza». (…)
MAURO. Ma le istituzioni sono dei vincoli e dei riferimenti d’obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché – e questo per me è il punto essenziale – siamo convinti che la felicità  o la «vita buona», come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel «sacrilegio sociale», come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati.
ZAGREBELSKY. (…) Forse dal punto di vista della felicità -infelicità , potremmo dire così: la democrazia è il modo più sopportabile di sopportare l’infelicità , il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l’infelicità  dell’humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. (…)
MAURO. Ma qui siamo (…) in un terreno sociale, di scelta, dunque politico e morale. Nel “confortarsi insieme”, “tenersi compagnia”, incoraggiarsi”, “darsi una mano e soccorso”, nella stessa parola “scambievolmente” c’è il concetto politico e umano di solidarietà , c’è un legame sociale di riconoscimento e obbligazione reciproca, anche se è visto come difesa dalla fatica del vivere. Lo stesso legame, la stessa impresa solidale può vigere e operare al di là  della mutua assistenza nella necessità , per arrivare a determinare costruzioni positive, spazi per meriti e per crescite, soddisfazione di bisogni, consensi su obiettivi comuni. Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela.
ZAGREBELSKY. (…) Se ci pensi, la ricerca della felicità  era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s’è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l’esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla «felicità ». Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità  ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità .


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