La disfatta di Zapatero: “Ma non vado via”
MADRID – Rischia di diventare un calvario l’addio alla politica di José Luis Rodriguez Zapatero, 51 anni, presidente del governo dal 2004 e artefice di quella “rivoluzione laica” dei diritti civili che riportò la Spagna sulle prime pagine dei giornali d’Europa.
Domenica notte “Bambi”, come lo chiamano ancora in privato i collaboratori di calle Ferraz, la sede nazionale del Psoe, aveva lo sguardo assente e l’aria incerta di chi deve comparire davanti a flash e giornalisti nel momento peggiore della sua vicenda pubblica. Quale Zapatero ricorderanno i libri di storia? Quello della rinascita dopo gli attentati di Al Qaeda dell’11 marzo del 2004 o quello che dopo tre anni di austerity, di tagli agli stipendi e alle pensioni, di leggi anticrisi e di due milioni di posti di lavoro persi, si prepara a restituire il paese alla destra?
Niente elezioni legislative anticipate, ha chiarito, si va avanti così per altri nove mesi fino a marzo 2012, con un governo nazionale delegittimato e con un leader – lui – già dimissionario, perché queste sono le regole e perché «voglio – ha insistito Zapatero – portare a termine il piano di riforme economiche anticrisi». La verità è che i socialisti osservano con una sensazione di panico la nuova mappa geopolitica della Spagna uscita dalle urne delle amministrative, e sanno che trasferire questi risultati ai seggi delle Cortes varrebbe toccare un fondo mai esplorato dal partito. Resistere fino alla prossima primavera è diventato un dovere per consentire a chi sostituirà Zapatero alla guida del Psoe (il vicepresidente Rubalcaba o la ministra della Difesa Chacon) di avere almeno la chance di una sconfitta onorevole, non di una inevitabile disfatta. Zapatero ha perso un milione e mezzo di voti in queste elezioni; i popolari di Mariano Rajoy ne hanno conquistati 400mila in più. Tra i due partiti ci sono dieci punti di differenza: 27,8% il Psoe, 37,5 il Pp. Ma ancora una volta si è realizzato quel fenomeno secondo il quale non è il centrodestra che le vince le elezioni, ma il centrosinistra che le perde. E’ quello che accadde nel 1996 con la vittoria di Aznar. In Spagna esiste una maggioranza sociale di centrosinistra che ciclicamente si astiene favorendo la vittoria del centrodestra perché si sente truffata dai socialisti. Un uomo paziente come Mariano Rajoy, che attende da otto anni la fine di Zapatero, lo sa benissimo. Vorrebbe portare i suoi al voto subito, incassare subito, ma è anche certo che nel calvario dei prossimi mesi il governo socialista perderà altro sangue, altro potere, altri suffragi.
Anche Antonio Garcia, uno dei leader degli indignados di Puerta del Sol, crede che la protesta abbia fatto crescere il numero dei disillusi che non hanno più votato per Zapatero. Ventisei anni, laureato in filosofia, Antonio rivendica il carattere pluralista del movimento, «ci sono indignados di tutte le ideologie», ma riconosce che nel suo caso non è andato a votare per protesta contro l’ultima legge di riforma del lavoro approvata dal governo del Psoe. Quella che liberalizza i licenziamenti anche dei contratti a tempo indeterminato. «Gli indignados – dice – non hanno nulla a che fare con questo modo di far politica, noi rappresentiamo un malessere generalizzato che nasce dalla crisi economica ma anche dal tipo di risposte che a questa crisi sono state date». «Noi – conclude – vogliamo riformare la politica, uscire da questo regime bipolare con due partiti che si alternano ma fanno sempre leggi contro i più deboli».
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