La contabilità  di Ratko Mladic “Morti e feriti 32, bombe 50”

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Acquisire conoscenze nell’utilizzo dei mezzi moderni e abilitarsi per diventare difensori del proprio popolo e dei suoi focolari domestici che esistono da secoli, contro l’invasione dei conquistatori.
Tutti gli altri popoli si renderanno conto che i Balcani sono diventati un’arena dove competono quelli che desiderano la germanizzazione ovvero l’islamizzazione dell’Europa.
Non so cosa stia accadendo, i soldati scappano. Molti dei nostri si muovono a piedi, e intanto i Turchi si spostano veloci in piccoli gruppi. C’è caos e mancanza di disciplina…

Paiono il diario di un curato di campagna più che di un generale al fronte. Non aprono finestre sull’anima di un boia, e nemmeno di un tragico eroe. «Ivanjska, 6 settembre 1994, morti 7 feriti 25. Richieste 50 granate da 76 mm. Prese Makarovac e Lipovaca». Giorno per giorno, villaggio per villaggio, lontano dagli occhi del mondo, l’estenuante contabilità  di un massacro. Con un vuoto clamoroso e prevedibile, verso la fine. Quello su Srebrenica, l’ecatombe firmata da lui. Le uniche pagine strappate, da Mladic o dai servizi segreti serbi, forse imbarazzati da alcune illustri corresponsabilità  da coprire.

Luoghi minimali in mezzo alle montagne: Grabez, Usora, Drijen, Vojnic, Plovno, Orlovo Gnezdo. E poi colonnelli di nome Bogojevic, Djuric, Marjanovic, o Trkulja: grigi burocrati della pulizia etnica che pure per quattro anni e mezzo hanno tenuto in scacco l’Europa, misurandone l’impotenza sul terreno e l’arroganza tecnologica con anni di anticipo sull’Afghanistan. «Turchi», «mujaheddin», «ottomani», «islamo-fascisti». Sono i bosniaci di cultura musulmana, il nemico, che già  minaccia l’Europa. Aride sigle anche qui. Una semplificazione del linguaggio costruita per la guerra. Una banalizzazione che qualcuno si permette il lusso di rompere, come Jovan Divjak, generale serbo che sceglie di stare con Sarajevo, contro i suoi ex camerati. Per questo non è quasi nominato. I militari si nutrono di schemi e temono come la peste chi glieli smonta.
Ci crede, Mladic, nella grande bugia della propaganda di Belgrado. In un discorso ai secessionisti delle Krajine, in territorio croato, evoca lo scontro tra chi vuole germanizzare e chi vuole islamizzare l’Europa, e spiega ai ribelli di essere «parte di uno scaglione importante di un esercito» messo a difesa dei «focolari ancestrali». È il settembre ’93 e non sa ancora che sarà  la grande madre Serbia a tradire le Krajine, consentendo d’intesa con Zagabria lo sgombero di quei focolari.
Quando serve dorme all’addiaccio come la truppa, i soldati lo amano. Sa maneggiare le bombe, disinnescare esplosivi. Ma non è lui a farsene vanto. Nei diari nessuna concessione al mito di sé. Conquista il 70 per cento della Bosnia, ma per Belgrado è troppo, la comunità  internazionale potrebbe irritarsi. Mladic e il suo capo politico Karadzic devono accontentarsi del cinquanta. Ed è a Belgrado che Mladic va a prendere ordini. La separazione tra i serbi di Bosnia e quelli della Grande Madre con centro a Belgrado è solo uno specchietto per le allodole, utile a de-responsabilizzare Slobodan Milosevic. Ed è con lui, l’ideatore primo dello stato etnico puro, che inizia lo scontro nell’autunno del ’94. Anche qui tutto è riportato con fedeltà , con la stessa scrittura infantile, come se Mladic fosse solo lo stenografo di se stesso. Il generale dal collo taurino non osa obiettare e non registra propri interventi. Annota solo, a riunione ultimata: «Mio Dio che parole terribili». E quelle di Milosevic sono pesanti come macigni. «Non possiamo perdere la guerra» tuona. «E continuare la guerra con tutto il mondo contro di noi significa tornare all’età  della pietra». E ancora: «La guerra deve finire!». Insiste: «L’errore più grande è sperare in una totale disfatta dei musulmani. Non possiamo farlo, perché domani saranno i nostri vicini». L’uomo che ha incendiato la Jugoslavia emerge col ruolo inedito di peace-keeper. Assistiamo in diretta a una fase cruciale della guerra: Milosevic scarica l’uomo che volle farsi re, lo psichiatra messo a capo dei serbi di Bosnia. «La logica militare è chiara, la guerra deve finire, e la più grande minaccia al nostro popolo viene dalla demenziale leadership di Pale». Ancora: «Quel medico folle può magari pensare che la Serbia sarà  costretta a seguirlo, ma vi assicuro che non accadrà ». In altri incontri ne parlerà  con disprezzo. «Un lunatico, che dorme fino a tardi, si circonda di trafficanti e si ubriaca di storia». Di più: «è un disonesto, e un musulmano onesto è meglio di un serbo disonesto». Se il diario non fosse stato trovato appena un anno fa, sarebbe da credere in un’operazione dei servizi belgradesi a favore di Milosevic. Ma Milosevic è morto per un colpo al cuore nella sua prigione dell’Aja.
Così come appare nella sterminata documentazione in cirillico, è in Mladic che Slobo cerca l’interlocutore. «Ratko – insiste – devi capire che tenerci il 50 per cento della Bosnia è cosa onorevole. Il mondo non accetterà  soluzione diversa». E poi, i soldi cominciano a mancare. Arrivano meno munizioni, meno carburante. I «turchi» stanno riprendendo l’iniziativa con tecniche raffinate di guerriglia. E Zagabria rivuole le Krajine, i territori croati dove i serbi hanno proclamato la secessione. Bisogna far presto a chiudere la partita. Da nessuna parte sta scritta la risposta di Mladic, che finisce per incontrare grandi mediatori internazionali come Jimmy Carter e Yasushi Akashi. L’uomo sembra cambiare pelle. Favorisce la distensione a Sarajevo ristabilendo le forniture di gas, acqua ed elettricità . Ma Karadzic insiste a non disarmare: «Come facciamo a discutere di demilitarizzazione se siamo attaccati?». E poi, attaccando Milosevic che ha deciso sanzioni «inumane» contro di lui: «Non c’è bisogno di andare a Belgrado per cercare una soluzione».
Così, mentre lo psichiatra dalla chioma fiammeggiante vaneggia di «eroi», è solo Mladic a ottenere aiuti militari da Belgrado. Annota le necessità  in modo minuzioso. Cherosene, gasolio, petrolio, proiettili, bombe, missili anticarro, granate, carne in scatola. Ma con la stessa cura registra dai rapporti dei suoi generali la caduta di morale della truppa. «I soldati scappano». «Molti dei nostri si muovono a piedi, e intanto i Turchi si spostano veloci». Morde il freno, non gli piacciono proposte di pace che lo obbligano a ritirarsi dai territori conquistati. È esasperato dalle trattative, e un giorno annota a lettere capitali: «Rigettare il piano, vincere la guerra!». E quando un parlamentare americano gli spiega che si possono comprare dei deputati al Congresso di Washington, lui esplode: «Ma se lì tutto si compra e vende, allora prendiamoci Clinton».
L’ultima delle quattromila pagine è del 28 novembre 1996, venti giorni dopo il pensionamento. Enigmatica, riporta il discorso di qualcuno. «Dal prossimo settembre ci saranno nuovi combattimenti e il diciottesimo giorno a partire da oggi sarà  molto importante a questi effetti… Le metteranno vicino un uomo dai capelli castano chiari, e dalle iniziali N. S. e lei deve stare attento a non farsi giocare da lui. Le cose per lei e la sua famiglia cambieranno significativamente dal giugno 1998. Dopo, tutto sarà  risolto». E invece, dopo, Mladic semplicemente scompare.


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