l terzo passo di un’alleanza
E i genealogisti della Casa Bianca senza dubbio gli troveranno qualche vecchia zia in una remota cittadina, tipo Ustrzyki Dolne, per ingraziargli l’elettorato polacco-americano, oltre a quello irlandese americano, in vista del voto del 2012.
Obama terrà il suo discorso programmatico sull’Europa nella medioevale Westminster Hall, dove dal 1945 ad oggi solo tre personalità straniere hanno avuto l’onore di rivolgersi alle camere riunite del parlamento britannico: Charles de Gaulle, Nelson Mandela e Papa Benedetto XVI. Cioè due predecessori straordinari. La sede prestigiosa è stata decisa, ma scommetto che il contenuto del discorso no. A quanto mi risulta, il discorso sul Medio Oriente e quello sull’Europa non sono stati per ora concepiti in base ad una strategia comune. Sarebbe bene invece. Non esiste progetto che esiga con più urgenza un partenariato strategico tra Europa e Stati Uniti della risposta all’evento politico più importante dell’inizio del ventunesimo secolo: la primavera araba.
Non dico questo per trovare un motivo di collaborazione tra le due metà di un “Occidente” in crisi di identità dopo la fine della guerra fredda, lo dico perché è un dato di fatto che nessuna delle due sponde dell’Atlantico può agire per proprio conto. Solo gli Usa possono (in teoria, per quanti siano i coloni israeliani dalla parte sbagliata del confine) persuadere Israele ad accettare la soluzione dei due Stati; solo gli europei possono fornire gli aiuti, il know-how, gli scambi commerciali e gli investimenti necessari a costruire uno stato palestinese indipendente. Solo gli Usa esercitano sulle forze armate egiziane un’influenza sufficiente ad evitare che strangolino sul nascere la democrazia nel loro Paese. Questa giovane democrazia non può però crescere priva di accesso ai mercati europei, all’istruzione e al supporto europeo al di là del Mediterraneo. E così via, in tutti gli altri casi, dal Marocco al Pakistan – se includiamo questo Paese in una generosa definizione del Medio Oriente esteso.
Il partenariato euro-atlantico non è quindi fine a se stesso, bensì il mezzo necessario per realizzare un intento comune. Il nostro obiettivo deve essere far sì che la primavera araba si trasformi in una durevole estate di libertà per l’intero mondo islamico. Questo dovrebbe essere il terzo grande progetto della collaborazione transatlantica dopo la Seconda guerra mondiale.
Il primo fu la ricostruzione dell’Europa occidentale dopo il 1945, simboleggiato dal Piano Marshall, la creazione della Nato, del Consiglio d’Europa e delle istituzioni che avrebbero infine dato vita all’Unione europea di oggi. In quel contesto gli Usa erano di gran lunga il partner più forte. Il secondo progetto vide l’integrazione dell’Europa centrale e orientale nelle “strutture euroatlantiche”, secondo la definizione che ne fu data in Europa centrale, tra gli altri, da Vaclav Havel. In questo caso Usa e Europa furono partner di pari dignità . I momenti chiave di tale processo furono l’allargamento ad est della Nato nel 1999 e dell’Ue nel 2004.
In questo terzo progetto l’Ue ha potenzialmente un potere maggiore di influire sul cambiamento pacifico rispetto agli Usa, distanti e relativamente indeboliti. Il Nord Africa e il Medio Oriente, sono, dopo tutto, il near abroad dell’Europa. Quando si tratta di rispondere ai movimenti di liberazione, più che la dimensione militare del potere (in cui l’America non ha rivali) contano gli aspetti economici, sociali, giuridici, amministrativi e culturali, di cui l’Europa è ricca. Suonava un po’ strano nel discorso di Obama a Washington il riferimento al nuovo ruolo della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, e alla partnership commerciale e di investimento per il Medio Oriente e Nord Africa. Non è quello che avrebbe dovuto fare l’Europa? O quanto meno che avrebbero dovuto fare l’Europa e l’America nell’ambito di un esplicito partenariato? Gran parte della colpa sta su questa sponda dell’Atlantico. L’Europa oggi sta traducendo malissimo il suo potenziale in potere reale. Ma non c’entra. A Londra parlerà il solo e l’unico presidente americano, non uno degli innumerevoli sedicenti presidenti europei (quello della Commissione, del Parlamento, del Consiglio ecc.)
La politica estera di Obama è stata finora all’insegna del “realismo”, per usare un eufemismo. In campagna elettorale lo stesso Obama disse: «In verità la mia politica estera non è che un ritorno alla tradizionale politica realistica bipartisan del padre di George W. Bush, di John F. Kennedy, e, sotto certi aspetti, di Ronald Reagan». Finora le sue priorità sono state: sicurezza, sviluppo e, al terzo posto, ahimè i diritti umani. Le passioni giovanili, la resistenza civile nella tradizione di Martin Luther King, l’autonomia nell’organizzazione sociale, la liberazione – sono state pressoché assenti nell’operato del presidente.
Questo è il momento giusto per aprire un nuovo capitolo in politica estera, un po’ più intriso di quella passione per la democrazia. Uccidendo Osama il presidente americano ha dimostrato di poter essere più determinato ed efficace di George W. Bush nella lotta al terrorismo. Non deve più temere i commenti beffardi e le accuse lanciate da Fox News, che lo ha definito vago, terzomondista, debole contro il terrorismo, debole contro le cause del terrorismo. Nel frattempo la splendida eruzione di people power in tutto il mondo arabo esige una risposta da parte dell’erede di Martin Luther King. Assieme, questi due eventi hanno già aperto un nuovo capitolo.
Trovare il tono giusto non sarà facile. Il presidente americano oggi non può parlare all’Europa o al mondo islamico come fece Truman 65 anni fa rivolto all’Europa occidentale e al mondo comunista. Né gli europei né gli arabi sono pronti a prendere ordini da Washington.
Qualche tempo fa ho avuto occasione di chiedere a Wael Ghonim, che con la pagina creata su Facebook ha avuto un ruolo chiave nel dare avvio alla rivoluzione egiziana, quale tipo di discorso avrebbe voluto sentire da Obama, dopo quello famoso all’università del Cairo. Ha esitato un po’ e poi mi ha detto che la gente in Medio Oriente non ama essere indirizzata dagli americani. E ha aggiunto che gli sarebbe piaciuto se i valori avessero prevalso sui semplici interessi. Il discorso di Obama a Washington ha soddisfatto questa esigenza sia nello stile che nel contenuto.
Quanto all’Europa, ancora non è disposta ad accettare diktat, neppure da Obama. Ma questo maestro di eloquenza saprà senza dubbio trovare il modo di esprimere quelle che sono le sue speranze in relazione al ruolo che l’Europa può giocare nella trasformazione del Medio Oriente esteso, in una partnership strategica con gli Stati Uniti a pari dignità . E quale luogo migliore per dar voce all’impegno per la democrazia di Westminster Hall, il ventre medioevale della madre di tutti i parlamenti?
Prego Presidente, ci aiuti a definire il terzo grande progetto transatlantico del mondo post 1945.
www. timothygartonash. com (Traduzione di Emilia Benghi)
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