Kenya, un Paese a secco

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La guerra del petrolio che sta paralizzando il Kenya non lascia morti per le strade, semmai auto ferme, in colonne chilometriche, e migliaia di automobilisti e motociclisti in una isterica disperazione. Però il conto da pagare, in termini economici, politici e sociali è comunque estremamente oneroso. La crisi è cominciata domenica ma i suoi effetti più evidenti si sono avuti mercoledì, quando in quasi tutte le stazioni di servizio del Paese è terminato il carburante. Tanti, quelli che sono rimasti a secco nella disperata ricerca di una pompa funzionante; ancor di più quelli che si sono sottoposti al calvario di ore di coda nella speranza di assicurarsi l’ultima goccia in una delle pochissime stazioni di servizio che funzionavano a singhiozzo, coloro che si sono messi in fila con la tanica in mano, quelli che hanno abbandonato auto e moto e hanno preso mezzi pubblici. Ordinarie scene di isteria collettiva, di migliaia di pendolari, di lavoratori, di patiti del motore che seguivano in diretta l’evolversi della crisi su un blog, www.findfuel.crowdmap.com, che li informava in tempo reale della disponibilità  di diesel e benzina nei distributori del Paese.

Vanamente, perché le pompe sono rimaste vuote. Ma, stranamente, non erano vuoti i serbatoi in cui il carburante viene stoccato dalle autorità  nazionali. E’ proprio questo elemento che dà  alla crisi di ieri una sfumatura di mistero. “Il Kenya negli ultimi giorni ha importato qualcosa come 85 milioni di litri di petrolio”, ha rivelato al Daily Nation un funzionario della Kenya Pipeline Corporation, la società  che, tra l’altro, controlla lo stoccaggio del petrolio che entra nel Paese. Solo nel centro stoccaggio di Kipelu, ancora mercoledì mattina erano conservati 44 milioni di litri. Per questo, molti analisti hanno parlato di “crisi artificiale”. Ma prodotta da chi e soprattutto perché? Qui, la questione si fa ingarbugliata perché si inciampa facilmente in quella guerra sotterranea che da mesi oppone autorità  nazionali e compagnie che operano nell’ambito della vendita al dettaglio, quelle che cioé gestiscono gli impianti: i due campi si rimpallano le responsabilità  in uno scarica barile esasperante. E’ abbastanza intuitivo, però, che se nei centri di stoccaggio il carburante c’é ma manca nelle stazioni, è perché qualcuno non è andato a prenderselo. Insomma, sembra che le responsabilità  principali stiano nella parte della catena distributiva più vicina ai consumatori.

Sono due le motivazioni che gli esperti del settore petrolifero kenyota scorgono dietro la crisi che mercoledì ha paralizzato il Kenya. Una prima è l’impossibilità  dei cosiddetti retailer di pagare il prodotto e le relative tasse alla Kenyan Revenue Authority. La questione è semplice: la Kra non fa credito. Chi non salda, non si rifornisce. Il problema dell’insolvenza di molte compagnie ne illumina un altro: l’atomizzazione del mercato del carburante in una miriade di società  di piccole o piccolissime dimensioni. Tanto per fare un esempio, solo quattro società  possiedono depositi autonomi: Shell, Oil Libya, Nock (National Oil Company of Kenya, parastatale), Oil Corp, alle quali se ne aggiunge un quinto gestito congiuntamente da Kenol, Kobil e Total. A Nairobi, infatti, sono state soprattutto le stazioni di Kenya Shell a reggere il colpo. L’altro paradosso è che dei 19 milioni di litri stoccati a Nairobi mercoledì, la maggior parte apparteneva a società  che non gestiscono stazioni di servizio, come Addax Kenya Ltd, royal Energy Ltd e Gulf Oil.

Ma c’é di più: la crisi di mercoledì – dicono insider ben informati – avrebbe come vero obiettivo la politica del controllo dei prezzi e del cosiddetto price cap (il limite superiore da non superare) fissato a dicembre dal governo. Rallentare la distribuzione di benzina serve a innervosire consumatori e opinione pubblica, da aizzare contro il governo, per indurlo a più miti consigli. E’ una scommessa pericolosa, con pesanti ripercussioni tanto all’interno che all’esterno del Paese. I sindacati sono già  sul piede di guerra: il più grande, il Central Organization Trade Unions (Cotu) chiede un aumento del 60 per cento sui salari più bassi e del 12,5 per cento per quelli nella media, più un altro 10 per cento per tamponare gli effetti del caro benzina, che sta colpendo tutta l’Africa Orientale. Le conseguenze della crisi kenyota rischiano di avere pesanti ripercussioni su Burundi, Ruanda e Uganda (dove il caro benzina ha già  provocato una grave crisi politica), che dipendono per il loro approvvigionamento da Nairobi. Che, a sua volta, si trova a pagare le conseguenze di una mancata pianificazione in ambito petrolifero che si traduce nell’assenza di scorte che permettano al Paese di reggere alla pressione inflazionistica dei carburanti. Sull’altro fronte, ci sono le disfunzioni connesse ad una rete interna che ha molte criticità . I “dettaglianti”, poi, godono di complicità  in ministeri centrali come quello dell’Energia: un potente cartello verticale con connotazioni simil mafiose che è alla base del sabotaggio che sta rendendo la situazione esplosiva in tutta la regione.


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