by Editore | 21 Maggio 2011 6:29
C’è al fondo una mancanza di rispetto umano, al di là delle idee, dei ruoli o delle rispettive posizioni, che tende a degenerare sempre più nel degrado civile con un effetto di contagio epidemico in tutto il corpo sociale.
Quando il capo del governo, in piena campagna elettorale, parla di “brigatismo giudiziario” e autorizza così i manifesti dei suoi epigoni che intimano “via le Br dai tribunali”; quando un sindaco uscente accusa falsamente in tv il suo avversario di essere un “ladro” e in pratica un fiancheggiatore del terrorismo, prima di chiedere magari un altro faccia a faccia per scusarsi pubblicamente; e quando un ministro della Repubblica, in condizioni psicofisiche evidentemente precarie, arriva a dare del “matto” a un candidato dello schieramento opposto, salvo ritrattare o ritirare l’offesa il giorno dopo, si arriva a un punto critico di non ritorno oltre il quale è a rischio la stessa democrazia.
Se poi in attesa del ballottaggio il medesimo ministro addebita al medesimo candidato sindaco della parte opposta l’intenzione di “trasformare Milano in una Zingaropoli”, allora insulta nello stesso tempo lui, il 48 per cento degli elettori che l’hanno votato al primo turno, i Rom e più in generale gli immigrati, insieme a tutta quell’area di moderati – cattolici e laici – che praticano la cultura della tolleranza, dell’accoglienza e dell’integrazione. In un riflesso condizionato, la paura della sconfitta elettorale alimenta così il ricorso alla politica più becera e al terrorismo mediatico. E come accade spesso nei talk show, appunto, si finisce inevitabilmente per alzare la voce e litigare, mentre il pubblico disorientato e sgomento non ci capisce più niente.
Ha fatto molto bene perciò il presidente della Federazione nazionale della Stampa, Roberto Natale, a rivolgere un appello alla responsabilità di tutti, “compresi noi giornalisti che le parole le maneggiamo per lavoro”. E in polemica aperta con il leader della Lega, Umberto Bossi, ha avvertito: “All’estero un uso tanto contundente del linguaggio politico verrebbe bollato come hate speech, incitamento all’odio”.
Ecco: l’odio, gli insulti, le offese. C’è da meravigliarsi poi che un programma televisivo come quello presentato da Vittorio Sgarbi in prima serata su Rai Uno accusi un flop clamoroso e venga interrotto d’ufficio dopo la prima puntata? Questa televisione al vetriolo è il terreno di coltura di una politica oscena. Una tv urticante che irrita la sensibilità dei telespettatori e in particolare proprio di quelli più moderati. Alla fine ne fa le spese anche un personaggio controverso come Sgarbi che pure avrebbe sulla carta l’intelligenza e la competenza per proporre una valida trasmissione di approfondimento culturale.
La verità è che la telepolitica ha fatto il suo tempo. Ha stancato. La gente non ne può più. Occorre maggiore compostezza e serietà . Il modello berlusconiano del populismo mediatico è vecchio, logoro, esaurito. La televisione deve tornare a essere un mezzo per comunicare la politica, non può essere il fine.
Tutto ciò vale, a maggior ragione, per la tv di Stato. Se l’Autorità sulle Comunicazioni è costretta a intervenire per richiamare formalmente la Rai a parlare dei referendum in programma a metà giugno, e quindi a informare adeguatamente i cittadini, significa che il servizio pubblico ha abdicato alle proprie funzioni e ai propri doveri istituzionali. E cioè che la Rai non fa più servizio pubblico, ma piuttosto è al servizio del potere.
Non è certamente da oggi che qui scopriamo la centralità della “questione televisiva” nella vita pubblica nazionale. Ma ormai siamo arrivati all’emergenza. È necessario un soprassalto di responsabilità generale per spegnere al più presto la politica dell’odio.
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