by Sergio Segio | 31 Maggio 2011 7:57
Sulla città brechtiana dove tutto era permesso con il denaro, malgovernata da lustri dalle lobby neo-feudali incardinate nelle riunioni del lunedì ad Arcore, dove i vassalli collezionavano i pizzini del sovrano, ha soffiato il nuovo Vento del nord.
IL VENTO che porta a palazzo Marino Giuliano Pisapia, aspirante tardo epigono del riformismo ambrosiano. “Adesso mi aspetto il 25 luglio 1943, la data del Gran Consiglio del Fascismo che disarcionò Mussolini”, esulta Piero Bassetti, primo presidente democristiano della regione Lombardia, che si è speso in campagna elettorale con il Gruppo del 51 (per cento), la cosiddetta borghesia illuminata rediviva, non solo contro la cricca spregiudicata che ha governato la città nel quinquennio del grande bluff di Letizia Moratti, ma per restituire a Milano il ruolo anticipatore di tutte le grandi svolte politiche del paese: il fascismo, la resistenza, l’immigrazione, il centrosinistra, il boom economico, il craxismo, infine il berlusconismo. «Quello che oggi pensa Milano – diceva Gaetano Salvemini – , domani lo penserà l’Italia».
Sarà Bossi il Dino Grandi del Terzo millennio o il Pdl imploderà da solo? Quel che è certo è che si profila qui, come a Napoli, a Cagliari, a Trieste, un nuovo blocco sociale. «Non solo tra i borghesi e gli intellettuali, ma tra i giovani, i ceti popolari, i disoccupati, l’associazionismo, i cattolici, per ricostruire questa città e questo paese dati in appalto per troppo tempo all’affarismo coniugato con l’incompetenza al potere», preconizza il neo-sindaco, che festeggia a piazza Duomo, in una Milano estiva che stasera sembra liberata da una “introversione regressiva”. Così la chiama l’urbanista del Politecnico Matteo Bolocan, che denuncia l’anarchia urbanistica come l’unica cosa visibile di vent’anni di governo della destra.
A poche centinaia di metri dai festeggiamenti per Giuliano, come tutti ormai lo chiamano, svettano gli scheletri dei grattacieli di Garibaldi, di fronte a quello già imbellettato eretto da Roberto Formigoni a eterna icona del potere suo e dell’affarismo di Cl e della Compagnia delle Opere. La nuova stirpe dei «grattacielari» senza un disegno, se non quello dello sfruttamento della “leva finanziaria”, cioè l’indebitamento con le banche, si è impossessata degli spazi lasciati vuoti dall’industria qui in centro e un po’ più in là , dove sorgeva la storica Fiera. Se la Moratti fosse stata rieletta sarebbero stati subito in ballo col nuovo Piano di Governo del Territorio altri 35 milioni di metri cubi, 100 nuove torri, o addirittura 341 secondo l’ambientalista Michele Sacerdoti. Si chiama “ridensificazione” la filosofia dell’assessore uscente Carlo Masseroli, 700mila abitanti in più vagheggiati per la città , con un tasso di densità che passerebbe da 7 a 12mila abitanti per chilometro quadrato, secondo il conto fatto dai tecnici di Milly Moratti, la cognata dell’ex sindaco. Peccato che non si venda o non si affitti un solo appartamento, i metri cubi si scambiano soltanto tra speculatori e banche come le figurine dei calciatori. Quando non sono grattacieli, sono loft negli ex capannoni industriali dismessi. Ce ne sono 70mila illegali, come quello dedicato a Batman dal figlio dell’ex sindaco Moratti, forse timorata di Dio e anche moderata, ma strumento malleabile nelle mani di un comitato d’affari con sede ad Arcore e con ciambellani del calibro di Bruno Ermolli, il Gianni Letta ambrosiano.
La “Peste di Milano” l’ha chiamata in un suo libro Marco Alfieri, una peste fatta di affarismo, ciellismo, berlusconismo, leghismo, avventurismo e trasversalismo del malaffare, che non nega neanche Bobo Craxi, figlio dell’inventore della Milano da bere, che con Tangentopoli aprì le porte al berluscoleghismo, dopo anni di riformismo che aveva fatto di Milano la capitale morale del paese: “Quando non c’è più la politica – dice – confliggono soltanto gli interessi”. I protagonisti sono sempre gli stessi: Ligresti, estensione d’affari della famiglia La Russa oberato da miliardi di debiti, ma che – ci si può giurare – non faranno fallire, i Cabassi, venditori dei terreni dell’Expo ed acquirenti delle aree della famiglia Berlusconi a Monza. L’oggetto le aree edificabili, i tunnel, le metropolitane, la sanità . «Un’intera oligarchia adesso travolta dal voto», secondo Nichi Vendola, che, liquidati gli affaristi ambrosiani, sbeffeggia «la volgarità dei raffinati intellettuali della Magna Padania».
Poi, con i grattacieli e gli appalti, le fondazioni bancarie, la Scala, i musei, una cassaforte di 22 società partecipate, 70 altri enti e fondazioni con 3 miliardi di patrimonio e 13mila dipendenti, che si aggiungono ai 16mila comunali. Il gas, l’acqua, le fognature, i trasporti, la sanità . Migliaia di poltrone lottizzate tra Pdl, Cl e Lega in modo scientifico, come neanche erano riusciti a fare democristiani e socialisti. Milano in questi anni ha subito persino l’onta di Cesare Geronzi nella poltrona che fu di Enrico Cuccia, che anche la borghesia illuminata accettò senza battere ciglio.
«Non faremo prigionieri», proclamò l’avvocato Cesare Previti dopo una delle prime vittorie elettorali di Berlusconi. A Milano di prigionieri negli enti non ne hanno lasciato neanche uno, salvo quelli – non pochi – che negli anni si sono autoreclusi, facendo il salto della quaglia verso il potere pervasivo del berlusconismo. Pisapia, pur dolce e gentile, non sembra che intenda fare prigionieri.
Ma l’insipienza del berlusco-morattismo è stata certificata oltre ogni legittimo dubbio dalla vicenda dell’Expo 2015. Sono passati 1.160 giorni da quando Milano strappò a Smirne l’esposizione. Troppo pochi per il partito del “fare e dell’amore” che si è scannato pubblicamente in una rappresentazione fatta di dilettantismi, incapacità , tradimenti, imboscate, conquista di poltrone e prebende, sotto la regia dei signori del cemento, cui hanno assistito annichiliti i membri del Bureau International des Expositions. Il risultato è ad oggi zero. Del resto, la vicenda era nata sotto una pessima stella. L’azione di lobbying sugli altri paese del Bie, indovinate da chi era cominciata? Dalla Libia del colonnello Gheddafi e dall’Egitto di Mubarak, i due dittatori spazzati via poco dopo.
Ai milanesi non piace farsi prendere per i fondelli, dopo vent’anni di promesse al vento e di fuffa che l’economista Marco Vitale considera offensiva: «I musulmani, la Moschea, gli attacchi al cardinale Tettamanzi. Hanno trattato i milanesi da deficienti». «Cinquecento sgomberi di Rom ha fatto il vicesindaco De Corato», ha calcolato il neo-sindaco. «Risultato: ha speso 7 milioni e non ha risolto, ma ha aggravato il problema». Nel frattempo, un negozio milanese su cinque paga il pizzo alla ‘ndrangheta, che ha già allungato le mani sugli appalti per l’Expo, nella sostanziale indifferenza della giunta, del Consiglio comunale e anche del ministro dell’Interno Maroni. Cacciare gli immigrati, del resto, «significherebbe tagliare il 10 per cento dell’economia e mandare definitivamente a fondo Milano, una sciocchezza senza pari», avverte Bassetti.
Missione ardita per Giuliano, di fronte a quella che è stata definita la sindrome dello “sconfittismo di sinistra”. A piazza del Duomo, Vendola inneggia stanotte ai “fratelli musulmani”. Forse un lessico un po’ forte per una città che rimane moderata. Ma infiamma la piazza con le parole: «Ora prenderemo palazzo Chigi».
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