Il segretario Cgil accusa: governo e Confindustria pensano di privatizzare lo stato sociale come hanno fatto con l’acqua
ROMA – «Devo dire che da questo governo mi aspetto qualunque cosa, ma non credo che ci siano le condizioni per altri tagli allo stato sociale oltre quelli che già si sono fatti. Piuttosto penso che si stia facendo strada, esplicitamente nella Confindustria, più nascosta in alcuni settori del governo, un’idea di privatizzazione dello stato sociale. È la stessa logica che porta l’acqua pubblica nelle mani dei privati. C’è da essere preoccupati». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, risponde così alla domanda se ritenga che il cantiere della previdenza possa riaprirsi. Di fronte ai dati dell’ultimo Rapporto dell’Inps, il leader della Cgil pensa che si debba tornare al progetto «di garantire ai futuri pensionati almeno il 60 per cento dell’ultima retribuzione». Per evitare di «costruire un paese di poveri», aggiunge.
Ma questo aumenterebbe la spesa pubblica, mentre tutti i governi europei sono impegnati a ridurla per rientrare nei nuovi vincoli comunitari.
«Nel biennio 2008-2009 abbiamo perso sei punti di Pil. Che avranno un effetto secco sulle future pensioni calcolate con il metodo contributivo. Un effetto aggravato dall’inasprimento dei coefficienti di trasformazione voluti dal governo. Sulle pensioni peserà anche il basso livello delle retribuzioni, che si accentua proprio nei settori dove sono più presenti i giovani, penso al commercio, all’area della grande distribuzione a quella dell’assistenza. Aggiungo, poi, che è l’Istat ad avere segnalato la crescita del part time involontario. Infine la discontinuità dei rapporti di lavoro avrà conseguenze significative sulle pensioni calcolate con il metodo contributivo».
Bisognerebbe abbandonare il sistema contributivo?
«No, non dico questo. Dico che non possiamo immaginare un paese con un terzo della popolazione, cioè i pensionati, che sia a rischio di povertà . Già oggi otto pensioni su dieci non arrivano a mille euro. Questo è un paese che sta rinunciando a progettare il suo futuro».
Che l’importo della pensione pubblica fosse destinato a scendere era chiaro fin quando venne varata, con il totale consenso dei sindacati, la riforma Dini. Per questo sono stati poi costituiti i fondi per la previdenza complementare. La realtà è che solo il 23 per cento della popolazione potenziale vi ha aderito. Perché, secondo lei?
«Il dato medio è quello. Il punto, però, è che nei settori dove è maggiore la frantumazione del lavoro l’adesione crolla vertiginosamente. Penso all’artigianato. Le piccole imprese continuano a utilizzare il trattamento di fine rapporto (il Tfr) per autofinanziarsi, come fosse roba loro e non retribuzione differita. Scoraggiano i lavoratori ad aderire ai fondi e, come è noto, per i sindacalisti non è facile entrare in quelle aziende. Morale: su quattro milioni di addetti del settore, hanno aderito al fondo solo in 11 mila. Per garantire la prestazione della pensione complementare abbiamo dovuto far confluire il fondo artigiani in quello del commercio. È questa una delle tante contraddizioni dei nostri imprenditori: da una parte dicono che serve la previdenza integrativa, dall’altra continuano a usare il Tfr al posto del credito bancario. Ma anche per questa via si affaccia l’idea di privatizzare un pezzo di stato sociale: al posto dei fondi negoziali, le assicurazioni».
Di certo abbiamo un welfare sbilanciato sulla spesa pensionistica. Come può pensare che funzioni quando quasi il 70 per cento della spesa sociale va sotto la voce pensioni?
«Mi limito a ricordarle che le pensioni, per quanto basse, sono quelle che hanno garantito la coesione sociale in questo paese. Perché sono i pensionati nelle famiglie a integrare i redditi dei giovani precari, a offrire loro una casa, a fare da baby sitter».
Questo è anche lo stato sociale informale che vede protagoniste le donne. Dove sono finiti secondo lei i miliardi di risparmi dovuti all’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego? Non dovevano servire per costruire più asili?
«Ho un sospetto: sono finiti nella spesa corrente. A conferma che questo governo non ha alcuna idea di politica sociale se non quella dei tagli».
Perché sostenete che dopo il contratto del commercio, che la Cgil non ha firmato, all’Inps mancheranno due miliardi?
«Perché è così. L’indennità di malattia non sarà più pagata attraverso il fondo malattia dell’Inps, il commerciante la darà direttamente al lavoratore. Ma c’è di più: siamo sicuri che il piccolo commerciante potrà pagare l’indennità per periodi lunghi di malattia? La rottura dei meccanismi di solidarietà espone sempre i più deboli, lavoratori e imprenditori».
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