Il parlamento degli avvocati in conflitto d’interessi
ROMA— Figuriamoci se in una Repubblica democratica fondata sul conflitto d’interessi, quale sembra essere oggi l’Italia, può mai destare scandalo la prassi secondo cui avvocati nominati parlamentari continuano a esercitare regolarmente la professione, applicando in tribunale le leggi che loro stessi fanno, talvolta a vantaggio dei propri clienti. Una commistione inaccettabile in qualunque altro Paese, ma che qui al massimo provoca qualche alzata di spalle. Se però è un avvocato a denunciare tale obbrobrio su un giornale importante come la Stampa, e l’avvocato in questione si chiama Franzo Grande Stevens, allora diventa una notizia impossibile da ignorare. Tanto più perché l’autore dell’articolo pubblicato ieri, ricordando che l’Ordine di Torino ha posto ufficialmente la questione, ha invocato una sorta di par condicio con i magistrati onorevoli: ai quali è imposta per legge l’aspettativa. Anche se fra le due categorie c’è la sproporzione evidente di uno a otto. Sapete quanti avvocati occupano un seggio? Sono 134: la somma di 87 deputati e 47 senatori. Con il 14%del totale hanno il record assoluto. Al secondo posto quelli che si qualificano genericamente «dirigenti» : 133. Al terzo gli imprenditori: 114, contro soli quattro operai. I docenti universitari sono 77, i giornalisti 89, i medici 53. I magistrati, invece, appena 17. Le legioni forensi sono poi agguerritissime. Occupano i ministeri dell’Economia (Giulio Tremonti), dell’Interno (Roberto Maroni), della Difesa (Ignazio La Russa), dell’Agricoltura (Francesco Saverio Romano) e pure, dulcis in fundo, della Giustizia (Angelino Alfano). Le commissioni Giustizia di entrambi le Camere, dove nascono le leggi più «sensibili» per il mestiere di legale, sono anch’esse in mano loro. In quella di Montecitorio, presieduta dall’avvocato Giulia Bongiorno, rappresentano il 59%: ben 27 su 46 membri. Mentre nella commissione di palazzo Madama, dove il presidente è l’avvocato Filippo Berselli, si accontentano invece del 56%: 14 su 25. Una forza d’urto impressionante, all’ombra della quale, in assenza di regole d’incompatibilità , proliferano conflitti d’interessi piccoli e grandi. Da manuale l’offensiva sul processo breve, scattata dopo che la Corte costituzionale aveva bocciato il cosiddetto Lodo Alfano. Quella proposta di legge, presentata al Senato, porta la firma di uno stuolo di avvocati, fra cui quella di Piero Longo, nominato senatore da Berlusconi nel 2008, avvocato difensore del premier con l’onorevole Niccolò Ghedini proprio nelle cause (Mills e Mediaset diritti tv) che verrebbero sforbiciate da quel provvedimento. E poco importa che gli avvocati, con tutto quello che hanno da fare a studio e in tribunale, siano spesso assenti. Ghedini, per esempio, dall’inizio della legislatura è risultato presente al 23,92%delle votazioni. Il mestiere comporta pure qualche necessario sacrificio. Anche se non dal punto di vista economico, a conferma del fatto che il Parlamento è un formidabile moltiplicatore di parcelle. Dei dieci deputati più ricchi, sette sono avvocati. Dopo Berlusconi (40 milioni di redditi nel 2009), il re delle cliniche Antonio Angelucci (oltre 6 milioni) e l’imprenditore Amato Berardi (2,7 milioni), ecco agli avvocati Giuseppe Consolo (2.308.103), Giulia Bongiorno (2.048.397), Maurizio Paniz (1.765.878), Ghedini (1.297.118), Ignazio Abrignani (715.229), Roberto Cassinelli (667.524) e Donato Bruno (570.356). Appena sotto troviamo Gaetano Pecorella (562.547), altro storico legale del premier, già presidente della commissione Giustizia della Camera. Incarico passato da destra a sinistra, e viceversa, ma quasi sempre a un avvocato. Dal 1996 al 2001 è toccato a Giuliano Pisapia, attualmente candidato sindaco di Milano contro Letizia Moratti, già esponente di Rifondazione comunista, considerato fra i principi del foro: dove ha talvolta incrociato la toga con qualche suo avversario politico. Nel 2002 tutelava gli interessi di Carlo De Benedetti, parte civile nel processo Sme contro Berlusconi, nell’occasione difeso da Ghedini. In tribunale volarono i coltelli. Ma ciò non impedì in seguito al rifondarolo Pisapia e all’azzurro Ghedini, avversari davanti al giudice, di firmare congiuntamente una proposta di legge sulle «investigazioni difensive» . Tutti insieme appassionatamente con i colleghi dei partiti più vari. Certo una fesseria, ma emblematica. Sentite cosa diceva l’ex presidente della Corte costituzionale Leopoldo Elia: «È orribile vedere il passaggio dalle aule giudiziarie di avvocati che svestono la toga per entrare alla Camera e al Senato. C’è un sostanziale conflitto d’interessi tra fare il legislatore, soprattutto in materia penale, e nello stesso tempo fare l’avvocato che difende con leggi che poi è pronto a cambiare. Bisognerebbe rifuggirne, altrimenti si degrada sia l’esercizio della nobile funzione dell’avvocatura, sia quello della funzione parlamentare» . Una scuola di pensiero purtroppo minoritaria, ma che conta autorevoli esponenti. Ne fa parte, per esempio, un personaggio del calibro di Guido Rossi, acerrimo nemico del conflitto d’interessi, la lui considerato in termini generali «la malattia più grave della modernità » . Al punto da indurlo a sostenere che non soltanto il mestiere di avvocato dovrebbe essere incompatibile con l’attività parlamentare, ma anche ogni altra professione. Come negli Stati Uniti. Le proposte di legge per spezzare il circolo vizioso si sono ammucchiate, legislatura dopo legislatura. Senza mai, guarda caso, uscire dai polverosi cassetti del Parlamento. E l’immagine di Vittorio Emanuele Orlando, il quale ritornando a fare l’avvocato dopo essere stato Guardasigilli avvertì per lettera i suoi clienti che non avrebbe mai più patrocinato cause in contrasto con gli interessi dello Stato, tristemente sbiadisce sempre più.
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