Il nocciolo della questione

by Editore | 7 Maggio 2011 6:50

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I libri che affrontano temi di attualità  corrono spesso il rischio di una rapida obsolescenza, quando avvenimenti successivi alla loro pubblicazione cambiano in modo drastico natura e percezione dei problemi analizzati. Lo corrono due volumi concepiti come contributi al dibattito indotto dalla decisione del governo Berlusconi di realizzare – grazie al varo della legge 99/2009 – impianti nucleari in Italia e dalla successiva indizione del referendum abrogativo della legge stessa, ma completati prima del disastro nucleare di Fukushima, secondo come gravità  solo a quello verificatosi esattamente venticinque anni fa a Chernobyl, ma sotto un profilo non strettamente tecnico molto più rilevante. 

Prima che emblema dei rischi nucleari, il reattore Rbmk di Chernobyl era infatti il simbolo di un sistema politico di lì a pochissimi anni destinato a dissolversi per autoconsunzione. La soluzione progettuale adottata lo rendeva intrinsecamente instabile, cioè quanto di peggio si possa concepire in termini di sicurezza, tanto che al di fuori dell’orbita sovietica nessuno si è mai sognato di riproporla. Per di più il reattore fu prescelto per un esperimento programmaticamente finalizzato a esaltarne l’instabilità , cioè l’equivalente di una spinta data a un acrobata in precario equilibrio su un filo troppo sottile a cento metri di altezza.
Interrogativi aperti
Non è il caso di Fukushima. L’impianto è stato costruito secondo standard occidentali in un paese spesso portato ad esempio per l’elevata qualità  tecnologica delle sue realizzazioni industriali. È dell’anno scorso il rapporto Ambrosetti sul nucleare, commissionato da Enel e Edf, dove proprio il Giappone è citato a riprova dell’affidabilità  degli impianti nucleari.
Proprio per questi motivi quanto è accaduto e sta ancora avvenendo all’interno dei reattori di Fukushima colloca in una luce nuova il problema della sicurezza degli impianti nucleari. Che nel caso specifico siano in esercizio da decine di anni, non scioglie il nodo di fondo, come invece cercano di convincerci alcuni zelanti fautori del «tiremm innanz». Il sisma, pur di intensità  inconsueta, ha lasciato intatti gli impianti. L’aspetto sconvolgente del caso Fukushima, cioè di impianti nucleari ubicati presso la costa di un oceano contrariamente al suo nome tutt’altro che pacifico, è averli realizzati con una scrupolosa attenzione al rischio sismico, per contro trascurando le minacce che potevano venire dal mare.
Un rischio non difficile da individuare, anzi, evidente come lo tsunami, non fu nemmeno preso in considerazione, tanto che i motori destinati a consentire il raffreddamento del combustibile nucleare in condizioni di emergenza erano posizionati in basso e non in alto, come sarebbe stato logico. Si potrebbe rispondere (alcuni l’hanno già  fatto) che l’evoluzione tecnologica passa anche attraverso situazioni incidentali. È vero, anche se queste non rappresentano mai la via maestra dell’innovazione e sono in assoluto inaccettabili quando il loro impatto supera determinati livelli di gravità , coinvolge una porzione consistente di territorio e gli effetti sulla salute umana permangono molto a lungo; caratteristiche, tutte, presenti a Fukushima. Rimane comunque senza risposta un interrogativo: non è che altrove si sono trascurate sorgenti di rischio altrettanto evidenti e preoccupanti? 
In materia la storia non ci rassicura. La via tradizionalmente prescelta per aumentare la sicurezza ha puntato sulla crescita del numero e dell’importanza dei sistemi di sicurezza attivi, cioè richiedenti l’azione di meccanismi, di circuiti elettrici ed elettronici, e così via. 
Poiché le sicurezze attive non sono mai affidabili al cento per cento, si è ovviato a questo handicap duplicando o triplicando i sistemi di intervento, oppure affiancando sistemi con caratteristiche diverse (ad esempio un comando pneumatico e uno elettromagnetico), col risultato di complicare e rendere più costosa la gestione degli impianti. In particolare dopo un incidente si sono affrontati e tecnicamente risolti gli inconvenienti che l’avevano provocato, complicando ulteriormente gli impianti, nel contempo lasciandoli indifesi nei confronti dell’incidente successivo, prodotto da una diversa causa.
Un processo poco lineare
Ogni nuovo incidente di elevato livello sembra insomma rendere sempre più plausibile l’ipotesi che la complessità  del sistema e delle sue interazioni con l’uomo potrebbero rendere impossibili analisi della sicurezza degli impianti onnicomprensive, non solo per le eccessive variabili tecniche in gioco, ma anche per la potenziale inaffidabilità  dei comportamenti umani, fra cui, non ultima, la possibilità  di sottostime od omissioni nell’analisi dei rischi.
Alla luce di queste considerazioni (sicurezza e costo degli impianti) va letto il primo dei due volumi menzionati in apertura, L’energia nucleare, scritto per il Mulino da Luigi De Paoli, docente alla Bocconi, ma in origine ingegnere nucleare. Concepito come manuale di informazione sull’energia nucleare (il sottotitolo recita «costi e benefici di una tecnologia controversa»), proprio perché programmaticamente non schierato anche dopo Fukushima rimane una valida testimonianza dei problemi e dei rischi (non solo tecnologici) del nucleare.
Pur convinto che negli impianti più moderni la sicurezza sia migliorata, De Paoli non manca di sottoporre a critica serrata l’approccio probabilistico che si è affiancato alla tradizionale metodologia della difesa in profondità  dai rischi, ma soprattutto si misura con il problema dell’accettabilità  sociale, dimostrando attenzione e rispetto verso le motivazioni del no. Si augura che alla fine prevalga il sì, ma per conseguire questo risultato occorre «fare in modo che gli incidenti siano sempre più rari, lontani nel tempo e dalle conseguenze trascurabili». La risposta al suo auspicio è già  arrivata dal Giappone e le modalità  con cui il governo italiano, per timore del referendum, ha scelto di mettere da parte il tanto strombazzato programma nucleare possono essere commentate con le stesse parole adottate da De Paoli per descrivere le decisioni assunte dopo Chernobyl: «il processo di uscita completa dal nucleare, come si addice a un paese che rifugge dalle decisioni chiare, non fu certo lineare, tanto che non si può nemmeno dire che vi sia stata una decisione di rinuncia definitiva».
Obiettivi irrisolti
Non meno illuminante il capitolo, già  significativo dal titolo «L’energia nucleare conviene?». Attraverso una trattazione rigorosa, dove necessario suffragata dai risultati delle ricerche svolte dall’autore anche con l’utilizzo di complessi algoritmi matematici, De Paoli perviene a conclusioni («nel caso del nucleare l’incertezza sui costi è elevata») che smentiscono le tante dichiarazioni di politici, economisti, esperti, apoditticamente impegnati a giurare sulla convenienza del nucleare, e demoliscono la fola delle rinnovabili troppo costose, mentre il nucleare si reggerebbe sulle proprie gambe: «l’estensione temporale … della scelta nucleare e la dimensione potenziale di eventi catastrofici… fanno sì che il decisore privato … non sia in grado di garantire a tempo indefinito la piena copertura di tutti i rischi». Di qui «l’inevitabile intervento pubblico».
Alla fine un libriccino, nelle intenzioni dell’autore il più possibile asettico, risulta più convincente come critica al nucleare del ponderoso volume scritto a quattro mani da Angelo Baracca, professore di Fisica a Firenze e Giorgio Ferrari Ruffino, che ha a lungo lavorato nel settore nucleare dell’Enel. Le quattrocento pagine del volume (Scram, ovvero la fine del nucleare, Jaca Book) offrono abbondanza di informazioni sui molteplici risvolti del ciclo nucleare, tuttavia si ha la sensazione che rimanga irrisolto l’obiettivo che un testo impegnato nella battaglia contro il nucleare dovrebbe preventivamente porsi: a chi intende rivolgersi?
Non è certamente un pamphlet, dato che gli manca la necessaria agilità  di trattazione, e anche le pagine che assumono queste caratteristiche si mescolano con la parte preponderante, impegnata ad analizzare criticamente in modi a volte fin troppo minuziosi le asserzioni tecnico-scientifiche dei sostenitori del nucleare, adottando prevalentemente il gergo degli addetti ai lavori. Se viceversa il target sono persone già  più addentro alle segrete cose, ma in prevalenza o in toto informate solo dalla pubblicistica pro nucleare, il tono spesso apodittico di molti passaggi può provocare nei potenziali lettori forme di rigetto psicologico; il tutto aggravato dal fatto che qui e là  non mancano imprecisioni. Come si fa a conquistare la fiducia di un lettore che di energia non è digiuno, quando nella parte iniziale si attribuisce al nucleare un contributo alla generazione elettrica pari grosso modo a metà  della percentuale effettiva?
Inoltre, in un testo di queste dimensioni i due temi cruciali, la sicurezza e l’economicità  del nucleare non assumono il rilievo che meriterebbero: solo venti pagine su «sicurezza e incidenti», una stringatezza che dopo Fukushima rende poco invitante la lettura del libro, meno di trenta sui costi. E, per dirla tutta, non si tratta solo di limiti quantitativi, caratteristica che emerge con particolare evidenza nel capitolo intitolato «quanto costa realmente il nucleare?», dove si ignora totalmente l’aspetto più critico, che oggi non è rappresentato dal costo in sé, ma dalla difficile bancabilità  di progetti con un rischio finanziario così elevato. Mentre per i costi di investimento e di esercizio ai dati forniti da Baracca e Ferrari Ruffino i pro nucleari possono agevolmente opporne altri molto più bassi (un celebre studio del Mit dimostra che cambiando anche leggermente alcune assunzioni il costo del kWh nucleare può variare fra 4,4 e 7,0 centesimi di dollaro), quale migliore prova contro il nucleare dell’inoppugnabile riluttanza delle banche a finanziare progetti del genere, che senza garanzie da parte dei governi non vengono nemmeno presi in considerazione?
Campagne strumentali
Con il nucleare per il momento alle spalle, il dibattito sul che fare si è spostato sul ruolo delle fonti rinnovabili, l’unica alternativa in grado di coniugare protezione dell’ambiente e della salute e sicurezza energetica. Si tratta di una battaglia tutt’altro che vinta, come dimostra il recente decreto che rende molto più arduo lo sviluppo del fotovoltaico. Gli errori da non commettere nel corso di questa sfida sono involontariamente messi in bella evidenza da Marino Ruzzenenti in un volume sulle innovazioni tecnologiche introdotte in Italia dal fascismo durante il periodo dell’autarchia per sostituire materie prime nazionali a quelle di importazione (L’autarchia verde, Jaca Book).
L’argomento non è nuovo, ne aveva già  parlato Roberto Maiocchi nel suo Gli scienziati del Duce, ma qui l’attenzione è maggiormente spostata dai risultati scientifici alle applicazioni che ne sono derivate. Dalla loro dettagliata descrizione emerge un panorama di insuccessi, che tuttavia riescono a «catturare» l’autore, consapevole della strumentalità  di una campagna ideologica dove l’uso razionale delle risorse è un obiettivo politico in parte prescelto per finalità  belliche, ma soprattutto con l’intenzione di giustificare sacrifici economici anche per beni di prima necessità , eppure convinto che nel dopoguerra sia stato un errore abbandonare il cammino scientifico-tecnologico intrapreso nel periodo dell’autarchia. Tanto che nella parte finale del volume Ruzzenenti ne sottolinea l’attualità .
Prevale insomma una concezione pauperistica dell’uso efficiente e razionale delle risorse, non solo antistorica, ma culturalmente pericolosa. Efficienza energetica, recupero e riuso dei rifiuti, sviluppo delle rinnovabili possono diventare l’asse portante di una innovativa economia verde solo sconfiggendo le vulgate che la descrivono come portatrice di regressioni economiche e sociali. Il fallimento dell’autarchia dipese certo dal servilismo di molti scienziati, disponibili a proporre l’impossibile pur di restare nelle grazie del regime, accuratamente descritto da Maiocchi e viceversa messo in sordina da Ruzzenenti, ma ancora di più da una concezione autoritaria e centralistica, cioè esattamente l’opposto del contesto politico pregiudiziale allo sviluppo dell’economia verde.
Questa, la conclusione che manca a un libro comunque utile per rileggere da un’angolazione insolita un pezzo della nostra storia.

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