Il Manifesto e le interpretazioni della vicenda libica

by Sergio Segio | 11 Maggio 2011 9:54

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Qualche tempo fa inviai a Norma Rangeri e ad Angelo Mastrandrea, in qualità  di Direttrice e di

Condirettore del giornale, una lettera email in cui esprimevo il mio disagio per l’atteggiamento assunto

dal manifesto sulla vicenda della Libia. Non essendo nell’elenco della corrispondenza interna del

gruppo redazionale e del collettivo, girai la lettera solo agli indirizzi interni di mia conoscenza.

Dalla Direzione non ebbi risposta o commento di sorta. Fui io stesso a chiamare per telefono e via

skype Mastrandrea per parlare della situazione. Tuttavia la Direzione non si interessò alle osservazioni

che sollevai nella lettera. Il mio disagio nei confronti dell’orientamento emerso sulla questione libica é

diventato tale che non riesco minimamente a concentrarami con serenità  sulla collaborazione nel campo

dell’analisi economica per cui non sto scrivendo.

Considero profondamente errato e retrogrado l’asse interpretativo portato avanti dalle persone che

impostano e gestiscono gli articoli sulla Libia apparsi sul giornale. Fanno eccezione le coraggiose

corrispondenze di Liberti ma é l’eccezione che conferma la regola. La linea imposta al giornale é quella

di un gioco di rimessa a favore del regime libico. Ma vedremo che questo é solo l’espressione

epifenomenica dell’essere malati della propria cultura identitaria del passato. Poco dopo la mia lettera,

del tutto ignorata dalla Direzione, é stato pubblicato sul manifesto del 9 marzo il dirompente articolo di

Rossana Rossanda. Concordo pienamente con lo spirito e le parole di quel pezzo, mentre invece credo

di aver compreso male quello precedente che infatti, nella lettera ignorata dalla Direzione, criticavo.

Alla luce del secondo articolo quelle critiche non hanno più ragion d’essere.

Se non sapessi che una buona parte della Redazione, ivi comprese persone che vi lavorano da decenni,

ha a sua volta elaborato una posizione critica riguardo la linea emersa durante la vicenda libica, potrei

affermare che il manifesto est malade de sa propre culture, le cui radici stanno nel terzomondismo degli

anni Sessanta-Settanta. I sintomi erano già  apparsi ed in forma assai palese durante la crisi del regime

di Mubarak in Egitto. Gli avvenimenti di Piazza Tahrir al Cairo venivano visti, non da tutti ma

certamente dal Caporedattore, Tommaso Di Francesco, in chiave terzomondista, antimperialista

modalità  ancien régime, sebbene ne venisse riconosciuta una specificità  nuova. Tuttavia l’asse centrale

era un leitmotiv antimperialista nel senso assai tradizionale del termine e non coglieva gli avvenimenti

egiziani e tunisini come il prodotto della globalizzazione anche nei loro aspetti positivi e nella

composizione sociale e culturale dei partecipanti. Bastava seguire le interviste che si susseguivano

ininterrottamente su Al Jazeera, sulla CNN e sulla BBC per capire che il movimento di Piazza Tahrir

non aveva nulla a che vedere con gli schemi tradizionali. Bastava capire come le persone intervistate

parlavano, soprattutto le giovani donne che hanno svolto un ruolo di punta sul piano della presenza e

dell’analisi sul posto. Perfettamente bilingue in arabo ed in americano, nota bene americano non il

British English con accentuazione araba che caratterizza l’inglese mediorientale parlato dalle élites

tradizionali, queste giovani articolavano idee liberal radical simili e, direi, informate a quelle che

emergono da varie università  statunitensi. Semmai sarebbe stato interessante analizzare questa

dimensione, intellettualmente dominante anche per la sua più facile accessibilità  ai media, con la

dimensione popolare influenzata dalla presenza discreta dei Fratelli musulmani. Nella sostanza

Tommaso Di Francesco nella sua qualità  di Caporedattore si é fatto scappare le peculiarità  della rivolta

contro Mubarak culturalmente assai più vicina agli Usa ed alle idee della campagna presidenziale di

Obama, che alle coordinate antimperialiste di 40-50 anni fa. E la Direzione, inconsapevole del vuoto

interpretativo che si veniva formando, nulla ha fatto per rimediare.

La carenza interpretativa riguardo l’Egitto – dettata dalla nostalgia di, o dalla fossilizzazione su «come

eravamo» – ha creato le condizioni per una vera e propria frana ed obnubilamento mentale nei

confronti della Libia. Già  nella mia lettera inviata alla Direzione avevo osservato che oggi dopo la fine

del socialismo reale, sia di matrice sovietica che cinese, non é possibile far credito a regimi nati col

marchio del nazionalismo antimperialistico. Essi devono essere giudicati con i criteri che applichiamo,

ad esempio, all’Egitto di Mubarak, o alla Tunisia di Ben Alì: criteri basati sulla libertà  di espressione,

di organizzazione, di rispetto dei diritti civili, sia dei cittadini che degli emigranti potenziali (sappiamo

come venivano trattati in Libia con la connivenza dei governi europei) e dei diritti politici. Da qui non

si scappa. Ancorarsi ad un’idea di Libia di Gheddafi nata progressista è proprio fuori tempo massimo.

Credo invece che la spiegazione del perchè le rivoluzioni nazional antimperialiste da Nasser, alla Siria,

al Baath in Iraq, alla Libia, si siano impantanate RAPIDISSIMAMENTE, avrebbe dato al manifesto un

ruolo di illuminazione importante.

Leggendo gli insostenibili editoriali del Caporedattore modellati, in barba alla specificità  storica,

sull’esperienza balcanica, nonché i pezzi di difesa in extremis del regime scritti da Valentino Parlato, mi

sono ricordato di un libro fondato su un dialogo tra tre ex attori nel campo del defunto e quindi

inattuale terzomondismo. Si tratta del volume Jean Lacouture, Ghassan Tuéni, Gérard Khoury,

intitolato Un siècle pour rien: le Moyen-Orient arabe de l’Empire ottoman à  l’Empire américain (Albin

Michel, Paris, 2002). Gli autori colgono l’essenza della ragione della fine senza appello dei regimi una

volta considerati positivamente da molta sinistra europea, soprattutto, ma non unicamente, di matrice

comunista. Si tratta, sottolineano gli autori, dell’incapacità  dei nuovi stati di allora di superare le

divisioni interne sulla base di clan, di costituirsi in stati moderni capaci di affrontare situazioni di

guerra ma anche di pace e di rifugiarsi invece in dittature di gruppo (come gli alauiti in Siria, il clan di

Gheddafi ecc). Un siècle pour rien appunto, che invece la passività  della Direzione e l’errata

modellizzazione balcanica del Caporedattore hanno voluto rilanciare e riattivare nell’attuale crisi libica.

A rendere intollerabile la posizione del giornale in tema libico non sono però le opinioni personali di

Tommaso Di Francesco e di Valentino Parlato che hanno diritto di espressione per quanto discutibili

possano apparire. L’aspetto insopportabile consiste nel fatto che tali opinioni siano diventate linea e che

la visione arcaica anni Sessanta sia diventata l’ideologia guida sul tema. In tale quadro, l’editoriale

scritto da Tommaso Di Francesco dopo la pubblicazione dell’intervento di Rossana Rossanda non ha

alcuna credibilità  L’intervento di Rossanda viene definito come una strigliata. La definizione é

fuorviante, liquidatoria e fornisce l’alibi per non cambiare nulla. Non si trattava di una strigliata ma di

una critica volta ad individuare l’incapacità  del manifesto, a mio avviso nella sua Direzione e nel suo

Caporedattore, a superare la secca culturale e politica su cui si é arenato. Questo stato di cose, oltre a

dequalificare il giornale sul piano analitico e dell’informazione, porta il manifesto ad essere

completamente impreparato ad affrontare l’attuale stato di guerra, a creare e sostenere un’opinione

pubblica progressista democratica capace di capire il mondo arabo in sommovimento e,

contemporaneamente, di opporsi alla guerra. Per motivi analoghi il manifesto risulta incapace di offrire

un quadro interpretativo geopolitico serio incentrato sulla globalizzazione in cui appaiano le poste in

gioco. che, in questo caso, non sono unicamente, forse nemmeno prevalentemente, focalizzate sul

petrolio. Vi entrano prepotentemente interessi di stati come la Cina in Africa e la corrispondente

azione da parte degli Usa, in un contesto in cui la crisi libica, ove il principale fattore é l’irreparabile

crisi del regime e la sua violenta reazione, ha aperto alla destra francese la prospettiva di ricostituire,

dopo la débà¢cle in Tunisia, un’area di egemonia mediterranea varata già  tre anni fa da Sarkozy in

contrapposizione alla Germania e da questa ufficialmente osteggiata.

Diventa pertanto necessario un cambiamento di impostazione e l’apertura del giornale ad articoli di

natura pofondamente diversa. Infatti la linea imposta dal Caporedattore e passivamente accettata dalla

Direzione, si articola su un livello concettuale estremamente basso, da Anni Cinquanta per intenderci.

Sia le lettrici/lettori che le altre colleghe e colleghi del giornale vengono costretti a confrontarsi con

opzioni inaccettabili: se condividono l’idea che il primo fattore della crisi libica é il regime libico che la

aggrava sul piano interno (prima dei bombardamenti aerei) con la sua reazione, essi vengono tacciati di

schierarsi dalla parte dei bombardamenti francesi, britannici, statunitensi e ora della Nato. Se invece

accettano il gioco di rimessa in favore del regime svolto dal Caporedattore, devono di fatto chiudere gli

occhi di fronte alla reale possibilità  di rappresaglia nei confronti di ampi strati della popolazione civile

della Cirenaica nel caso di riconquista da parte di Gheddafi. Un problema che Parlato e Di Francesco

non sembrano essersi posti seriamente. Del resto lo stato stesso di embedded del primo inviato a

Tripoli, Maurizio Mattuezzi, limitava la possibilità  di articolare e scrivere su tale problema, mentre se

lo é posto giustamente e sul terreno per giunta, Liberti.

Da parte della Direzione, colpevole di passività  malgrado il suo forte penchant liberaldemocratico,

quindi favorevole al pluralismo delle opinioni, non c’é stato alcun tentativo di aprire degli spazi

alternativi che un giornale può fare solo in maniera analitico-interpretativa e culturale. La ricerca di tali

spazi si sarebbe dovuta concentrare nell’elaborazione di un sentiero, o di una serie di sentieri, in cui si

coglie l’oggettività  della crisi irrimediabile del regime e quindi si capisce, analizzandola, la natura della

rivolta, non solo nella parte orientale, senza sollecitare interventi militari aggressivi. Ma ciò avrebbe

significato riconoscere che sarebbe stato pericolosissimo per la popolazione se il regime fosse rientrato

in possesso delle città  in rivolta. Un’impostazione del tutto diversa dall’aut-aut imposto dal

Caporedattore che ha diviso tutto in bianco e nero quando il mondo arabo é il luogo dei colori sempre

sfumati, sempre cangianti, come i deserti, le dune e i venti che lo avvolgono

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