Il lato nascosto del miracolo indiano

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DANTEWADA (INDIA) – L’allarme arriva con un sms. «Ci segnalano che polizia e ausiliari armati hanno attaccato tre villaggi presso Chintalnar, nel distretto di Dantewada, e hanno bruciato numerose case». Il distretto di Dantewada è in una zona remota tra le montagne nell’India centrale, nello stato del Chhattisgarh: regione di foreste e miniere di ferro popolata da «tribali», i nativi del subcontinente indiano. «Ci dicono che hanno ucciso delle persone e violentato alcune donne», diceva il messaggio circolato in una rete di attivisti sociali, e concludeva con un appello: andate a vedere come stanno le cose.

Pochi giorni dopo uno dei più autorevoli quotidiani indiani ha pubblicato un resoconto terribile. Il corrispondente di The Hindu è andato tra quelle montagne e ha fotografato le macerie annerite di tre villaggi, case ridotte a poche pietre annerite, granai bruciati (erano pieni, il raccolto era appena finito). Ha raccolto le testimonianze degli abitanti disperati e di alcuni ufficiali di polizia che parlano nell’anonimato. L’operazione di polizia è cominciata l’11 marzo ed è durata cinque giorni, ricostruisce; erano 350 uomini dei corpi di élite, il battaglione Cobra, e dei commandos Koya, un corpo reclutato tra «maoisti pentiti» e giovani tribali della zona. Il bilancio è tre villaggi in fiamme, tre abitanti uccisi, tre donne violentate, e tre paramilitari uccisi. La polizia dice, off records, che pochi giorni prima tre uomini dei Koya erano stati uccisi dai maoisti durante un pattugliamento. E che un «pentito» aveva segnalato in quei villaggi una fabbrica clandestina di armi artigianali, anche se poi non ne hanno trovato traccia. Hanno trovato invece i maoisti, che hanno lanciato un contrattacco; non è chiaro quanti ribelli siano stati uccisi. Ora le autorità  civili promettono un’inchiesta, e risarcimenti agli abitanti.
La strana guerra
Suona come una cronaca di guerra, con paramilitari, guerriglieri, e il corollario di ogni guerra: donne stuprate, civili terrorizzati, villaggi bruciati. E in qualche modo è una guerra. La regione Bastar, con il distretto di Dantewada, è nota come una roccaforte della rivolta armata maoista diffusa nelle zone più remote dell’India rurale, reincarnazione del movimento nato quarant’anni fa nelle campagne del Bengala occidentale (allora i ribelli erano chiamati naxaliti) e riemerso nell’ultimo decennio proprio tra queste foreste. E questo spiega la densità  di caserme che vediamo lungo la strada per il borgo di Dantewada, capoluogo del distretto, o intorno a Jagdalpur, la cittadina di 80mila abitanti capoluogo dell’intera regione: accampamenti delle forze paramilitari come la Central Reserve Police Force, corpi speciali dai nomi esotici come Snake Batallion, Cobra. 
Strana guerra, però. Suscita poca attenzione fuori dall’Asia meridionale: negli ultimi anni l’India, con il suo miliardo e 200 milioni di abitanti, ha fatto notizia piuttosto per il suo ingresso tra le «economie emergenti». Nell’ultimo decennio il Prodotto interno lordo è cresciuto intorno all’8% annuo, per il 2011 il governo spera di superare il 9%. Crescono export, produzione industriale, consumi, immobiliare, mercato azionario, investimenti – cresce anche la povertà  rurale, ma quella fa meno notizia. Molto di questa crescita sta nelle information technologies, il «terziario avanzato globale» degli ingegneri di software e dei call centre. Ma si moltiplicano anche i grandi investimenti in miniere, acciaierie, poli industriali.
Miniere e acciaierie ci riportano nel montagnoso Chhattisgarh, lontano oltre mille chilometri da New Delhi con le sue autostrade urbane. Qui siamo in piena mineral belt, una grande regione montagnosa che attraversa diversi stati dell’India centro-settentrionale – è chiamata così perché racchiude enormi giacimenti minerari solo in parte sfruttati: ferro, bauxite, carbone, uranio e altro. Siamo anche nel cuore della tribal belt, la regione dove vive gran parte della popolazione nativa dell’India, gli adivasi («abitanti originari»): sono la parte più esclusa e discriminata del paese benché sia una minoranza consistente, 90 milioni di persone.
La mappa dei giacimenti minerari coincide quasi alla perfezione con quella delle popolazioni native, e quella delle foreste e montagne più remote. Ed è qui che è esplosa la rivolta maoista: quei villaggi bruciati sono cronaca dalla «nuova frontiera» dello sviluppo economico indiano.
Un conflitto per la terra
«La fonte di tutti i conflitti è la terra», mi dice Manish Kunjam, dirigente del Cpi, uno dei due partiti comunisti rappresentati nel parlamento dell’India (quello che ha come simbolo la falce e la spiga). Lo incontro nella sede del suo partito, una grande stanza spoglia in un quartiere di lavoratori nel capoluogo Jagdalpur. Già  deputato all’Assemblea nazionale del Chhattisgarh eletto a Sukma, borgo rurale nel distretto di Dantewada, Kunjam spiega: «Nell’ultimo decennio la corsa a sfruttare le risorse minerarie si è intensificata, e solo in questo distretto progettano due grandi acciaierie. In tutto lo stato pendono decine di richieste di concessioni minerarie, industrie, centrali elettriche – tutti investimenti privati, multinazionali come Tata, Essar. Ma i progetti industriali richiedono terreni, così lo stato toglie terra e risorse comuni ai villaggi per darle alle imprese private». Da decenni il Partito comunista si oppone all’espulsione dei tribali dalla terra, spiega il dirigente comunista, ed è così che ha consolidato la sua presenza in questa regione montagnosa. «Abbiamo sempre fatto battaglie per il diritto alla terra e per portare nei villaggi servizi pubblici, scuole, dispensari medici» dice Kunjam, che è lui stesso un adivasi.
L’esproprio di terre tribali è accelerato con la creazione del Chhattisgarh, lo stato nato nel 2001 per secessione dal più grande Madhya Pradesh. Il nuovo stato, si disse, avrebbe finalmente garantito sviluppo locale e empowerment dei tribali, che fanno oltre un terzo della popolazione del Chhattisgarh e la maggioranza in questi distretti montagnosi. Le cose però non sono andate così. L’economista Prem Shankar Jha fa una diagnosi impietosa: «I nuovi stati hanno solo creato nuovi centri di potere e accelerato il processo di sfruttamento delle terre, senza migliorare la vita dei tribali né mettere fine alla corruzione. Certo, un nuovo stato coopta nuove élites, e una piccola élite tribale è stata cooptata nei grandi partiti, il Congress o il Bjp; qualcuno è stato eletto deputato e va in città , altri sono diventati piccoli ras locali. Ma cosa succede a quelli che restano sotto, la maggioranza? E’ tra loro che scoppia la ribellione. Tra loro trovano ascolto i maoisti».
L’avanzata dei «naxaliti» 
I maoisti qui sono entrati in scena negli anni ’90, sospinti verso nord dalle operazioni delle forze di sicurezza nel confinante stato di Andhra Pradesh. Si sono attestati prima in una zona di jungla chiamata Abujmard, tuttora poco esplorata dalle forze di sicurezza; poi sono penetrati nei distretti vicini. «Hanno cominciato subito ad attaccare i nostri militanti», dice Manesh Kunjam. Prima ancora che con lo stato, i maoisti sono entrati in conflitto con il Partito comunista: «Finché nei villaggi ci siamo noi, per loro è difficile prendere l’egemonia. Per questo hanno ucciso molti dei nostri». Fino a una decina d’anni fa, il Cpi era la prima forza elettorale in questa regione, continua Kunjam: «Poi sono arrivati loro. Hanno proclamato le loro “zone liberate dal capitalismo”. Fanno discorsi simili ai nostri: denunciano lo stato che vuole dare le terre comuni alle multinazionali per le miniere e le fabbriche, parlano di difendere le risorse naturali e la terra degli adivasi. Ma noi continuiamo a fare azioni di massa, crediamo nella lotta politica, nel movimento democratico. Loro invece hanno i fucili». E i fucili hano un certo appeal sui giovani di villaggi da sempre ai margini.
Un medico di Jagdalpur, che chiede di non rivelare il suo nome né dove lavora, descrive con sentimenti contrastati l’avanzata maoista: «I tribali sono sempre stati sfruttati. Gran parte dei villaggi non ha elettricità , scuole, mai visto lo “sviluppo”: solo imprenditori forestali che saccheggiano il legname e gli prendono i prodotti della foresta per un nulla. La polizia certo non protegge i tribali, è piuttosto alleata degli imprenditori. I maoisti dicono di stare dalla parte dei poveri. I tribali non sanno nulla di maoismo ma pensano che li aiuteranno a difendere la terra. Fanno discorsi giusti, i naxaliti. Ma i loro metodi… se sospettano che un villaggio stia con il governo non esitano a uccidere, hanno fatto fuori molti capivillaggio. E’ vero che molte comunità  si sono sentite difese dai naxaliti, mentre dallo stato hanno ricevuto solo abusi. Non che abbiano molta scelta però: possono solo decidere se stare con i maoisti o con lo stato, e in ogni caso rischiano la rappresaglia dall’altra parte».


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