Il ladro di realtà 

by Editore | 19 Maggio 2011 6:56

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Al massimo insidiato dal successo di una Lega finalmente moderata; a livello nazionale il Terzo polo era destinato a veleggiare con il vento in poppa degli auspici, mentre i coccodrilli per il Pd di Bersani, «il caro estinto», erano gia pronti. Costa ammetterlo, forse più a sinistra che a destra, ma le cose stavano così.
Quanti hanno avuto la possibilità  di assistere agli ultimi giorni di campagna tra Milano e Torino non hanno dimenticato che anche nell’elettorato progressista da tempo l’insoddisfazione e il timore serpeggiavano profondi. A Torino la vittoria di Fassino al primo turno era in discussione con il solito rosario di argomenti: l’uomo è grigio, imposto dal partito di Roma, ormai da decenni lontano dalla città  che non conosce più, incapace di entrare in connessione con il nuovo dinamismo terziarizzato della società  civile sabauda. A Milano in tanti criticavano la campagna di Pisapia e, dalla vicenda dei manifesti di Lassini in poi (annunciato recordman di preferenze), il coro era unanime: Berlusconi ha personalizzato e radicalizzato la campagna, ha convocato l’ennesimo referendum sulla propria persona e, ancora una volta, si è mostrato un maestro della comunicazione politica costringendo il solito centrosinistra allo sbando a inseguirlo vanamente sul suo terreno. Commentatori, sondaggisti, pubblica opinione erano tutti lì a riflettere sui roboanti effetti dell’ennesima zampata del Cavaliere scudettato, alcuni ammirati, altri sconsolati o tremebondi.
I risultati di queste elezioni comunque si vogliano leggere e comunque vada a finire la vicenda di Milano (tutt’altro che chiusa), dicono che il centrosinistra è pienamente in campo e competitivo, proprio in quel nord produttivo dove il canto dominante lo dava in via di evaporazione. Eppure un sentimento di incertezza, di smarrimento e persino di disfattismo ha accompagnato parte del suo elettorato, il primo a non credere in se stesso e nelle proprie possibilità , evidentemente condizionato dal tono complessivo assunto dal dibattito.
Si tratta di un problema serio, un dato psicologico prima che politico, il quale merita di essere analizzato perché costituisce uno dei frutti più seduttivi e avvelenati del berlusconismo. Il Cavaliere si mostra capace di compiere un vero e proprio «furto di realtà » anche nel campo avversario e presso l’opinione pubblica in generale che per superficialità , pigrizia o convenienza si acconcia alla propaganda dominante. Certo, ciò avviene per lo strapotere televisivo dello schieramento governativo in grado di dispiegare nei momenti elettorali tutta la sua forza senza controllo e disciplina, a parte i buffetti degli ammonimenti e delle multe dell’Agcom, peraltro di solito oculatamente bipartisan. Ma sarebbe questa una spiegazione parziale.
Il «furto di realtà » deriva anche dalla compresenza di un altro fattore, ossia dall’egemonia conquistata dalla retorica terzista in televisione come nella carta stampata: se affermiamo che Berlusconi non governa, dobbiamo anche dire che le opposizioni sono inadeguate altrimenti il discorso non può farsi. E intanto, mentre i commentatori erano impegnati con il loro bilancino a dosare dissensi e sfumature, nella società  produttiva del nord cambiavano gli umori elettorali e cresceva il fastidio per questo governo non governante. In particolare, il Pd, la principale forza di opposizione, è sempre e solo descritta come una litigiosa armata in rotta e le campagne giornalistiche che hanno denunciato i comportamenti del premier sono addirittura considerate controproducenti per le sorti del fronte progressista. Siamo davanti a un terzismo moderato che serve a tutelare convenienze e occasioni di un pezzo di classe dirigente, la quale ha uno straordinario vantaggio a prosperare nel discredito complessivo della politica in quanto tale e a trattare con un Berlusconi indebolito. Non bisogna farsi illusione perché è sempre stato così. Costoro vorrebbero che il tramonto del Cavaliere dimezzato non smettesse mai di finire e attenderanno l’ultimo raggio di luce, il momento in cui il suo sole scomparirà  definitivamente dall’orizzonte, per alzare lo sguardo dal «particulare» dei propri interessi e guardare a quelli generali dell’Italia. Nel frattempo, però, levano queruli lai sulla dissoluzione italiana, che non avrebbe speranze, alternative né possibilità  di salvezza: o Ruby o morte e loro a bilanciare con la giusta stadera dell’opportuna attesa. Sono gli stessi che ora agitano lo spettro del «pericolo rosso» a Milano fingendo di non sapere che Berlusconi ha perso contro la mitezza del sorriso di un gentiluomo borghese come Pisapia perché l’estremista è stato lui.
Sarebbe tuttavia sbagliato non registrare anche l’esistenza di un terzismo progressista che ha fatto breccia soprattutto nella sinistra intellettuale, quella persuasa che con «questi dirigenti non vinceremo mai», per ricordare il grido di dolore di Nanni Moretti del 2002. È questa un’idea oltremodo seducente in quanto deresponsabilizzante che consente di salvarsi l’anima rinchiudendosi in una postura indignata e antipolitica che consola, persino ristora, nell’immediato, ma non produce analisi rigorose né la grinta necessaria per affrontare lo scontro con l’avversario che così finisce sempre per partire in vantaggio. Sembrerà  l’ennesimo paradosso italiano, ma c’è dell’indifferentismo anche nell’esibire la propria indignazione poiché, in fondo, se Berlusconi vince o perde a loro non cambia nulla, anzi l’inadeguatezza dei suoi comportamenti li fa sentire migliori sul piano etico-civile senza sforzi particolari. Tanto gli italiani sono così (dicono) e si sentono automaticamente buoni, ma non vale più la pena di impegnarsi per difendere la trama liberale e riformista di questo Paese: o radicalismo o morte e, come tanti reduci di una guerra mai per davvero combattuta, si beano nella mistica purificatrice della sconfitta.
Queste due forme di terzismo hanno prosperato nel corso dell’ultimo ventennio ai piedi del tronco berlusconiano e proprio la loro intensità  e durata rivelano quanto quell’albero sia ancora ben piantato nel cuore del potere italiano. Sarebbe bene non dimenticarlo.

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