Il giovane viziato con lo sguardo timido diventato il “principe del terrore”

by Editore | 3 Maggio 2011 7:22

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A questo può comunque indurre una prima superficiale occhiata alla sua biografia. Alia, sua madre? Era una concubina ripudiata, e per di più una siriana alauita, appartenente a una setta detestata o disprezzata dai sunniti integralisti. E lui, Osama, il figlio, è diventato il campione dei jihadisti, dei sunniti più fanatici. Mohammed, il padre? Uno spilungone, secco come un chiodo, guercio, brutto, analfabeta e geniale, anzi genialissimo, e di grande simpatia, generoso: un muratore immigrato in Arabia Saudita, arrivato a Gedda con quattro stracci sulla groppa di cammelli affamati, dalla regione yemenita natale di Hadramaut, e diventato plurimiliardario in dollari e amico e ministro dei Saud, oltre che padre di cinquantaquattro figli, partoriti «da venti madri diverse». E Osama ha finito con l’essere un nemico mortale dei re sauditi, per i quali il padre costruiva palazzi, autostrade, moschee a Medina e alla Mecca, e persino aerei dotati di ascensori per monarchi e principi decrepiti. I Bin Laden hanno concluso affari, negli Usa, anche con la famiglia Bush, che con Osama, dopo l’11 settembre, non ha potuto essere indulgente, ma non è neppure riuscita ad acciuffarlo. In realtà  questi crudi dati biografici non bastano per giustificare la rituale, facile diagnosi di Edipo. Non ho l’impressione che si addica in particolare al nostro caso: quello del criminale più ricercato del pianeta, che ha violato l’invulnerabilità  della superpotenza americana, ha provocato due guerre e ha beffato per più di 10 anni gli eserciti e gli agenti segreti lanciati al suo inseguimento. Quale arabo, dopo forse il Saladino, ha affrontato l’Occidente con tanto impeto? Nell’inverno del 2001 ho assistito a una caccia all’uomo surreale. Più che un’operazione militare sembrava la titanica, assurda lotta tra la tecnica e la natura. A Tora Bora, sull’Indo Kush, in Afghanistan, i B52 sganciavano tonnellate di esplosivo sulle montagne innevate nella speranza delusa di colpire Bin Laden, nascosto in un tunnel, sotto migliaia di metri di roccia. Le bombe scheggiavano appena i ghiacciai e probabilmente il capo di Al Qaeda e i suoi uomini non sentivano neppure i boati delle esplosioni che si disperdevano nelle valli. Adesso sembra si sia voluto cancellare il suo cadavere, nel timore che possa essere fonte di ulteriori calamità . Pare l’abbiano gettato in mare, dopo averne provato l’identità  attraverso il dna, forse perché una sua tomba in terra ferma potrebbe attirare pellegrini. Alimenterebbe il culto. Diventerebbe un santuario. In realtà  quella avvenuta ad Abbotabad (a 80 chilometri a nord di Islamabad) è stata la seconda morte di Osama Bin Laden. Quella fisica. Mentre quella simbolica, politica, ideologica, era già  avvenuta sulle piazze del Cairo, di Tunisi, di Damasco, di Bengasi, dove Al Qaeda è stata ignorata. Nessuno l’ha esaltata. Nessuno l’ha nominata. La “primavera araba” è sbocciata, è esplosa per la voglia di democrazia, di libertà . Non è provocata dal fanatismo islamista, e ancor meno ispirata dall’idea di un califfato (antico fantasma totalitario) lanciata da Bin Laden. Il suo strumento terroristico, Al Qaeda, più una nebulosa alimentata da gruppi di imitatori spersi nel mondo che una organizzazione vera e propria, è stata ed è ignorata dai giovani egiziani, tunisini, siriani o libici. Per loro è un arnese insanguinato e obsoleto. Non è una scelta. È fuori dal tempo, anche se i suoi sporadici seguaci sono ancora capaci di colpire. Prima degli americani, Bin Laden è stato ucciso simbolicamente dalla gente di piazza Tahrir e di avenue Burghiba. Nei suoi vari incontri con Osama, l’inglese Robert Fisk (The Great War for Civilisation, edizioni Fourth Estate-London) ha scoperto un personaggio timido, che distoglieva spesso lo sguardo dall’interlocutore. Si vedeva che era cresciuto in un ambiente agiato. Mohammed, il padre, nonostante i numerosi figli e le mogli che si succedevano al ritmo di un anno, aveva avuto cura di lui. Lo portava nel deserto, gli insegnava ad affrontare le fatiche fisiche e ad assumersi responsabilità  nell’azienda sempre più vasta. Azienda che gli avrebbe garantito un’eredità  di trenta milioni di dollari. Osama è stato viziato nella sua adolescenza, sia dalla madre, infine sposata a un marito affettuosamente procurato da Mohammed al momento del ripudio, sia dal padre che non trascurava la tribù di figli e figlie. Nell’ambito della pletorica ma solidale famiglia saudita il giovane Osama non aveva apparenti motivi per covare complessi, ai quali più tardi attribuire le sue azioni. Come gli altri Bin Laden avrebbe potuto vivere delle sue rendite, cercando ragazze nei night club di Beirut, di Londra, di New York, passando da una Rolls Royce a un jet privato, o da un casinò all’altro. È invece diventato un uomo comune, senza vizi e qualità  evidenti, se mai un po’ puritano e sempre più intollerante. A diciassette anni si è sposato per la prima volta con Najwa Ghanem, di quattordici anni. Avere una moglie serviva anche per evitare le tentazioni e una vita dissoluta. Da Najwa, una cugina, ha avuto undici figli. E con lei ha vissuto in un semplice appartamento, con la madre e il padrigno, mentre avrebbe potuto comperarsi un palazzo. Osama era parsimonioso. Non gettava il denaro. Sapeva di essere ricco ma non frequentava i ricchi. Si distingueva dal resto della famiglia per la religiosità . Jonathan Randal (autore di una delle migliori biografie, Osama, edizioni Alfred A. Knopf, 2004), lo descrive come perfettamente onesto nelle sue convinzioni, e logico nel comportamento politico. A Ryad, gioca a calcio con gli amici ma rifiuta qualsiasi altro passatempo, che possa distoglierlo dalla frequentazione della moschea. A scuola il rapporto con professori appartenenti ai Fratelli Musulmani, più tardi considerati troppo moderati, lo spingerà  ad accentuare l’austerità  e l’ascetismo. Quando nel 1979 i sovietici invadono l’Afghanistan, le autorità  saudite incaricano il giovane Bin Laden di aiutare la Cia americana nella lotta contro i soldati infedeli che occupano una terra musulmana. È ricco e onesto, quindi la persona ideale per raccogliere fondi destinati ai guerriglieri arabi, sauditi ma anche giordani, egiziani, palestinesi e magrebini, accorsi per combattere a fianco dei mujaheddin afgani. A Peshawar, in Pakistan, conosce un predicatore palestinese, affiliato ai Fratelli Musulmani, e dotato di capacità  intellettuali che giudica eccezionali. Si chiama Abdallah Azzam e come Osama Bin Laden è un sostenitore della resistenza afgana contro i sovietici. Insieme, il palestinese e il saudita, creano il Maktab el-Khidemat (Ufficio di servizi) a University Town, un sobborgo di Peshawar, in una strada tranquilla, dedicata a Syed Jalauddin al-Afghani, un ottocentesco modernizzatore dell’Islam. È un posto privilegiato, tra residenze eleganti e giardini rigurgitanti buganville. In quell’angolo appartato di Peshawar, Bin Laden e Azzam promuovono, raccolgono aiuti destinati ai combattenti arabi, tra i quali non mancano i salafisti, gli integralisti più intransigenti, ai quali il giovane ricco saudita presta sempre più attenzione. In quegli anni, a metà  degli Ottanta, a Peshawar ho visitato spesso le organizzazioni che aiutavano la resistenza ai sovietici. Un giorno, Danielle Eyquem, una giornalista francese dell’Agence France Presse, uscì perplessa da un incontro con degli arabi, proprio a University Town. Nata in Tunisia, da un avvocato protestante di Bordeaux e da una madre ebrea di Sfax, Danielle conosceva bene il mondo musulmano. E subito mi fece notare che nessuno di quelli che avevamo incontrato l’aveva guardata negli occhi e le aveva stretto la mano, perché era una donna. Saranno dunque anche stati dei resistenti, ma erano anche, senz’altro, dei salafisti. Dei musulmani integralisti. C’era fra loro Osama Bin Laden? Allora non conoscevo nemmeno il suo nome. Il suo nome diventò famoso, in Arabia Saudita, subito dopo. Nel 1986, Bin Laden diffonde un suo racconto sulla battaglia a cui dice di avere partecipato, vicino a Jaji, accampamento di mujaheddin in prossimità  della frontiere pakistana. Per dieci giorni, con i suoi quaranta compagni, ha resistito a forze sovietiche e afgane dotate di carri armati, aerei e paracadutisti. Bin Laden dà  toni epici e religiosi al racconto della battaglia, alla quale soltanto pochi altri danno un’uguale drammaticità . «In quanto musulmani pensiamo che la morte ci porti in Cielo. Prima di una battaglia, Dio ci manda la seqina, la serenità . Un giorno ero a trenta metri dai russi che cercavano di catturarmi. Ero sotto i bombardamenti ma il mio cuore era tanto tranquillo che mi sono addormentato». Il racconto epico e fantastico è ripreso con grande risalto dai giornali, in Arabia Saudita, dove il giovane alto un metro e novanta, abile cavaliere, soldato mistico, ansioso di combattere i russi, il cui stile si distingue da quello arrogante dei connazionali ricchi sempre intenti a festeggiare invece di combattere contro gli infedeli, diventa un personaggio popolare e adulato. La famiglia reale lo riceve come un eroe nazionale. Osama non è un musulmano colto, non conosce molto di teologia, ma questo l’aiuta: parla un arabo semplice, elegante, classico, condito di versetti del Corano. Nel frattempo si separa dall’amico Azzam e fonda Al Qaeda, in arabo “la Base”. Nel 1989, quando i russi abbandonano l’Afghanistan, lui rientra in patria trionfante, e comincia ad occuparsi dello Yemen, la terra dei suoi antenati, per la quale auspica la riunificazione. Mentre a Ryad si vuole che il paese, progressista a Sud, repubblicano a Nord, resti diviso. È il primo dissapore con la famiglia reale. Se la prende poi con Saddam Hussein, «il dittatore irakeno, l’apostata, il miscredente», in guerra da otto anni con l’Iran di Khomeini, grazie anche al sostengo finanziario dell’Arabia Saudita. E quando nell’agosto del ‘90 Saddam invade il Kuwait e minaccia l’Arabia Saudita, Osama Bin Laden propone al principe Sultan, ministro della difesa, di mobilitare Al Qaeda, di raccogliere centomila volontari, e di marciare contro il bandito di Bagdad. Ma i principi del regno preferiscono affidarsi agli americani. E lui, Osama, denuncia con forza il sacrilegio, quale è ai suoi occhi la presenza di truppe infedeli sulla terra dove sorgono Medina e La Mecca. Il principe Turki, ex capo dei servizi segreti di Ryad, descrive a Jonathan Randal il brusco cambiamento di Osama Bin Laden. Il giovane calmo, moderato, paziente, si era trasformato ai suoi occhi in un rivoluzionario. Era diventato arrogante, pronto a sacrificare vite umane per la sua causa, e sicuro di poter comandare un’armata, con le insegne di Al Qaeda. Dopo un breve soggiorno in Afghanistan, dove tenta invano di riconciliare le varie fazioni della resistenza, raggiunge il Sudan dove una giunta islamica ha preso il potere, e al servizio della quale egli si mette con slancio, per costruire case ed altre opere pubbliche. In quegli anni l’egiziano Hosni Mubarak, grande alleato degli americani e repressore dei movimenti islamici, subisce un attentato mentre è in visita nel Sudan. E l’attentato risulterà  finanziato da Osama. Il quale nel frattempo è privato della nazionalità  saudita. A Ryad non si sopportano infatti le sue critiche alle autorità  del regno e si segue con apprensione la sua sempre più intensa attività  anti americana. Il capo di Al Qaeda è convinto che dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica, costretta ad abbandonare l’Afghanistan, l’egemonia delle super potenze stia ormai per finire, e che gli Stati Uniti debbano essere l’obiettivo principale dei jihadisti. Gli americani tentano di neutralizzarlo esigendo la sua espulsione dal Sudan. Ottengono soddisfazione ma accelerano l’ormai avviata conversione al terrorismo. Di ritorno in Afghanistan Osama incontra Ayman al Zawahiri, il medico egiziano che in patria animava la violenta jihad islamica. Seguono il doppio attacco alle ambasciate americane di Tanzania e del Kenya. E nell’ottobre 2000 un motoscafo imbottito di esplosivo tenta di affondare nel porto di Aden una nave americana. Uccide 19 marinai e fa 250 milioni di danni. Durante il 2001, in Afghanistan, Osama coltiva i suoi rapporti con il mullah Mohammed Omar, il capo pashtun, guercio e rustico, audace e capace, in egual misura, di crudeltà  e generosità . Un giorno, a Kandahar, Omar ha indossato un mantello attribuito dalla leggenda al Profeta, e si è dichiarato commendatore dei credenti. Osama esercita un’influenza sempre più forte sul mullah Omar, che convince tra l’altro a distruggere i due grandi Budda di Bamiyan, per ubbidire alla disciplina iconoclasta dei puritani sauditi. Ma non sembra che egli abbia informato il capo dei Taliban dei suoi progetti sull’11 settembre. Giorno in cui è stata violata l’invulnerabilità  del territorio americano. Né avrebbe detto al mullah guercio e coraggioso di avere dato ordine alle sue guardie del corpo di ucciderlo nel caso fosse sul punto di essere catturato dagli americani, venuti in Afghanistan per vendicare i morti di New York.

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