Il coraggio del presidente

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Contro tutti coloro che oggi si congratulano per la sua durezza dopo averlo insultato per la sua mollezza si è consumata su colui che il «superamericano» George W Bush aveva inseguito invano per otto anni. Barack Obama potrebbe davvero dire, e a ragione, quello che Bush fece annunciare da un famigerato e bugiardo striscione: «Mission Accomplished». Missione Compiuta. La folla che nella notte della notizia nella quale nessuno credeva più dopo un decennio di vane promesse e di cacce ai fantasmi si è raccolta spontaneamente attorno alla Casa Bianca per celebrare l’esecuzione a distanza – perchè questo è stata – dell’ingegnere dell’11 settembre, era tornata a intonare quel mantra che avevamo dimenticato: lo «Yes we can», sì, possiamo farcela che aveva accompagnato la marcia verso la presidenza. L’eco di quel coro, udibilissimo nella stanza da letto di Barack e di Michelle al terzo piano, deve essere suonato ancora più dolce della comunicazione di successo arrivata nella «situation room» dai commando della Marina che riportava dal Pakistan il cadavere di binLaden. Eppure Obama non si è tolta l’acre soddisfazione di rinfacciare a nessuno un successo storico, ma comunque sanguinoso e violento, contro un personaggio spregevole come l’organizzatore di dozzine di massacri. Non ha vantato la prova di decisionismo, di leadership anche militare, quella che era tanto mancata ai suoi predecessori democratici Carter lo Sfortunato e Clinton il Titubante e che viene sempre rinfacciata dai falchi della destra alle colombe della sinistra. Al contrario, la prima persona che ha informato è stato proprio George W Bush, colui che si era consumato, e aveva consumato vite americane e non americane, nella caccia a Osama «vivo o morto» lanciata dalle rovine del World Trade Center il 17 settembre 2001. Non lo ha fatto perchè sarebbe stato poco americano, addirittura anti americano, cedere alla tentazione di scaricare sugli altri gli insuccessi per vantarsi soltanto dei successi, come fanno governi e politici con meno senso della nazione e della comunità  nazionale. Sa bene, da americano, che l’operazione in Pakistan non sarebbe stata possible senza la presenza delle truppe inviate in Afghanistan da Bush e che l’opinione pubblica, oggi entusiasta di lui, non gli avrebbero perdonato uno sfoggio di meschinità  partigiana ed elettoralistica. L’atto di «giustizia», come lo ha chiamato, deve parlare per sè, non può essere democratico o repubblicano, come non furono di destra o di sinustra le vittime del terrorismo. Ma il difficile per lui viene ora, quando l’esaltazione comprensibile fin troppo rumorosa e da curva sud dei suoi «fellow americans», dei suoi concittadini come sottolinea sempre polemico comincerà  a scemare e la scoperta che la morte di bin Laden non è affatto la morte della piovra di al Qaeda si farà  strada. In più, già  i sintomi dell’inevitabile scetticismo e dell’incurabile «complottismo», più fuori che dentro gli Stati Uniti cominciano ad affiorare, concimati da quell’irriducibile anti americanismo che neppure la commozione effimera del 9/11 estirpò davvero dietro le apparenti solidarietà . Internet già  bolle. Sarà  morto davvero, Bin Laden? Perchè hanno gettato il cadavere nell’Oceano Indiano? Ci si può fidare dei test del dna fatti dalla Cia usando campioni di materiale genetico prelevat a una sorella? E, domanda essenziale nel tempo delle guerra per immagini, dove sono le foto, i video dell’operazione militare e del corpo dell’ingegnere? Sarà  una nuova prova per lui e per una presidenza che per ora può cullarsi, insieme con il nuovo capo della Cia, il calabrese-americano Panetta, nella nuova luna di miele. Qualche prova visiva dovrà  essere esibita, oltre a quei pochi secondi di video della stanza da letto che dimostrano soltanto che i «Seals» i commando della Marina, hanno ripreso l’assalto e non possono non aver scattato immagini del super terrorista ucciso, dunque fanno crescere la curiosità . Ma ogni immagine, rischia il destino dell’immaginetta sacra per i fanatici del terrorismo che chiederanno vendetta per la vendetta e agiteranno le menti più torbide, così come l’assenza di prove creò leggende e miti attorno ai pochi resti carbonizzati di Adolf Hitler fuori dalla Cancelleria di Berlino. Il momento dell’immagine pubblica, che verrà , ufficialmente o per altre vie nell’era di Wikileaks e della Rete, sarà  un momento delicatissimo. Per quanto enormi siano infatti le colpe dell’ucciso, un moto umano di ribrezzo e di repulsione afferra sempre chi vede i risultati della violenza sull’uomo. Anche l’impiccagione del massacratore di iracheni, curdi e sciiti, Saddam Hussein, nel buio di un patibolo bestiale fra urla di odio, suscitano un senso istintivo di repulsione. La stessa che afferra di fronte alle «normali» esecuzioni di condannati a morte dalla giustizia ordinaria con siringhe o sedie elettriche. Per questo Barack Obama, il direttore della Cia, se Leon Panetta, gli alti comandi che hanno trovato lo straordinario coraggio di mandare due elicotteri con 14 commando a sfidare il fortino di Osama, hanno scelto quella che chiaramente è stata un’esecuzione sommaria, condotta sul posto, senza giudici, giurie, difensori, corti d’appello, testimoni, garantismi e codici di procedura penale che avrebbero trasformato in seguito il processo civile in un’epopea del terrore. L’America accetta e applica, non lo si dimentichi, la pena capitale e questa pena è stata inflitta, a nome del popolo americano, al profeta del terrore jihadista con giustizia sommaria. È facile capire perchè il Presidente abbia scelto la americanissima e spiccia soluzione in stile OK Corral dopo avere scoperto il nascondiglio di Osaba bin-Laden, e perchè abbia fatto scivolare il cadavere avvolto in un sudario bianco e accompagnato dalla lettura del Corano fatta da un imam sunnita come lui era, dopo che tutti i Paesi arabi lo avevano rifiutato, Arabia Saudita, la sua terra natale, per prima. Purtroppo, nelle guerre non convenzionali come quella del Terrore, le battaglia si nutrono di immagini, come quella delle Due Torri, pensate non per uccidere poche migliaia di innocenti, ma per bruciare negli occhi e nella memoria di chi le guarda, senza immagini non si vince. La «Mission Accomplished» di Obama, non sarà  del tutto «compiuta» fino a quando il morboso scetticismo e la diffidenza di tanti non saranno soddisfatti. Il Presidente «non americano» che ha ridato orgoglio all’America e ha dimostrato che nessuno è sa di avere vinto soltanto una battaglia. In una guerra lui, o il suo successore, erediteranno, come lui ha ereditato.


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