Il Cavaliere: “Mai il passo indietro” Ma teme l’asse Tremonti-Formigoni

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È quindi questa l’ultima spiaggia per salvare il partito e il governo nel caso di una doppia disfatta a Milano e Napoli nei ballottaggi. Ne stanno parlando i più avveduti tra i ministri, sondando anche le intenzioni della Lega. Perché anche a via Bellerio, a cominciare dal Senatur, per la prima volta, si è aperto un dibattito vero sul “che fare?”, su come evitare che la Lega finisca sotto le macerie del Cavaliere. Tutti d’accordo – tranne i pretoriani del «cerchio magico» che circondano Bossi – che occorra un “piano B” per uscire dall’angolo. 

Calderoli, dopo aver fatto da apripista sulla Libia, ieri ha lanciato l’ultima sfida al Cavaliere sulle riforme «da fare subito». Si parla dello spostamento da Roma dei ministeri (due a Milano e uno a Napoli), di una «no tax area» sul modello irlandese, che attragga imprese straniere a Milano. Anche se Tremonti ha chiarito che spazi per tagli delle tasse non ce ne sono, «perché con la Grecia in giro non si può fare». Sulla Padania in edicola oggi Calderoli chiede un nuovo «patto di cambiamento» che comprenda, oltre al decentramento del governo, «riforma del fisco, Senato Federale, costi standard anche per i ministeri». Nell’incontro avuto a palazzo Chigi giovedì, dopo il Consiglio dei ministri, Bossi, Calderoli e Tremonti sono andati al contrattacco, spiegando che la giustizia dovesse passare in secondo piano a favore di riforme «a costo zero» come quelle istituzionali, a partire dal taglio dei parlamentari. Riforme da lanciare subito, pena il collasso: «Così non andiamo avanti, serve subito una svolta». Raccontano che il capo del governo di suo abbia suggerito di nominare Tremonti vicepremier, ma la risposta di «Giulio» è stata gelida: «Non hai capito. Il problema non è questo».
In un’atmosfera scoraggiata si ragiona anche sul partito. I ministri di Liberamente – Frattini, Gelmini, Carfagna, Romani e Alfano – hanno iniziato a vedersi con Claudio Scajola per stringere una rete comune contro gli ex An. Dopo le elezioni usciranno allo scoperto con due richieste precise: la fine delle quote 70-30 e l’inizio di un tesseramento che porti a un congresso «vero» il prima possibile. In questa situazione di movimento anche Roberto Formigoni si gioca la sua partita da protagonista, consapevole della finestra di opportunità  che gli offre un’eventuale sconfitta del Pdl a Milano. Unico uomo forte del Pdl al Nord, il governatore lombardo – forte della rete di Cl e dei rapporti stretti con l’ala cattolica dei Sacconi e dei Quagliariello – sarebbe pronto a lanciare la sua sfida e farsi nominare coordinatore unico. Una sorta di “commissario” per azzerare tutto e ricominciare da capo, con l’obiettivo di trasformare il Pdl nel Ppe italiano. Qualcuno gli ha suggerito di gestire il partito nella fase di difficoltà  come facevano un tempo i big della Dc. Il modello è quello dei “caminetti” che un tempo si riunivano nella sede scudocrociata di via della Camilluccia. In questo caso verrebbero coinvolti tutti i colonnelli: da Letta a Alfano, da La Russa a Gelmini, da Verdini a Alemanno. Il progetto prevede di lanciare subito un ponte verso l’Udc di Casini, in vista di un voto anticipato che potrebbe tenersi nella primavera del 2012. 
Nonostante questa doppia tenaglia – da un lato la Lega, dall’altra le correnti interne al Pdl – Berlusconi non ha però alcuna intenzione di fare passi indietro. Non a caso ieri ha tenuto a precisare ai Tg che in caso di sconfitta «non ci saranno conseguenze» sull’esecutivo. «Non vedo, anche se volessi, a chi potrei lasciare – insiste il premier in questi giorni – e comunque andrò avanti fino alla fine della legislatura». Conta sull’ennesima mossa a sorpresa, da varare dopo i ballottaggi. Si parla di un ulteriore allargamento della maggioranza, con l’arrivo di Ronchi e Urso (per ora nel gruppo misto) e altri transfughi dell’Udc. 
Lo stesso Berlusconi non si fa tuttavia illusioni sui risultati elettali. Ieri è di nuovo ridiventato il primo dei falchi, andando all’attacco della «sinistra degli zingari e dei centri sociali». Ma in privato ritiene la Moratti destinata alla sconfitta. «Forse abbiamo sbagliato a ricandidarla», ha ammesso quando ha letto che il sindaco dava la colpa al governo (cioè a lui) per i fischi ricevuti dai disabili a Milano. A convincerlo della impossibile rimonta di «Letizia» è stata anche l’analisi del voto che gli hanno sfornato gli esperti elettorali di via dell’Umiltà : al primo turno alla Moratti è venuto meno il voto delle donne.


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