Rivolta araba. I nuovi eroi della Primavera contro il vecchio fanatismo

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Il silenzio delle piazze arabe, e di quelle del mondo musulmano in generale, all’annuncio della morte di Osama Bin Laden, è un segnale rivelatore. Altri eroi, altri caduti, accendono ormai gli animi. Le società  arabe, che hanno appena disarcionato o cercano di disarcionare i vecchi raìs, non commemorano lo sceicco.

Non rendono omaggio a chi predicava e praticava la violenza e aveva come obiettivo la restaurazione dell’antico califfato, destinato a governare la “comunità  dei credenti”. Sulle piazze arabe nelle ultime settimane è stato invocato l’esatto contrario. Sono stati esaltati i valori universali e in parte conquistati i diritti individuali. Non è stata chiesta la sottomissione a un potere integralista, basato sulla costrizione religiosa. Al Cairo, dove la recente rivolta ha allargato i confini della libertà  di espressione, non ci sono state manifestazioni funebri. Né ce ne sono state a Tunisi, in preda a un’euforia democratica. E nessuno ci ha pensato a Bengasi. A Damasco ci si vuol liberare di un leader autoritario, non celebrare la scomparsa di un capo integralista, che appena poteva predicava la morte. Qualche bandiera americana è stata senz’altro bruciata e qualche lacrima è stata versata. Qualcuno ha sentito una stretta al cuore quando ha appreso la notizia. I miti, anche se appassiti, restano annidati, sopravvivono, in qualche memoria, e sollecitano i sentimenti, vecchi o profondi. E poi ci sono l’orgoglio e la convenienza. Se nei territori occupati l’Autorità  palestinese ha definito la scomparsa del capo di Al Qaeda «una buona cosa per la pace nel mondo»; a Gaza, il primo ministro di Hamas, che due anni fa ha represso duramente i jihadisti di Rafah, ha condannato «l’assassinio del jihadista Osama». E sulla rete, nei siti dell’Islam radicale, non sono mancati gli omaggi al martire e le minacce di vendetta rivolte a chi l’ha ucciso. Ma un tempo avremmo visto riversarsi nelle piazze folle in preda alla collera e ardere falò di bandiere stellate. I regimi polizieschi, come quelli dell’egiziano Mubarak e del tunisino Ben Ali, finanziati da Washington, avrebbero stentato a reprimere le esplosioni di anti americanismo. In Egitto, dove negli anni Settanta sono stati formati i primi militanti di Al Qaeda (in particolare il medico Ayman Zawahiri, vice di Bin Laden), i Fratelli musulmani, da tempo ansiosi di distinguersi dall’Islam radicale, hanno ricordato la loro condanna «della violenza e degli assassinii» e hanno invitato gli occidentali a non associare più Islam e terrorismo. In questa fase della protesta, in cui non si sono ancora spenti gli slanci insurrezionali, i giovani difendono valori opposti a quelli di Al Qaeda. Sono nazionalisti, ma non esprimono ostilità  verso altri paesi o altre religioni. Questo vale anche per la Libia, dove è in corso una guerra civile e dove prevalgono principi conservatori, ma dove il discorso è lo stesso. La scomparsa di Gheddafi significa libertà  e democrazia, nel senso più grezzo e al tempo stesso più autentico. Anche nei dieci anni di espansione del jihadismo, Osama Bin Laden ha conosciuto continue disfatte. Nello stesso Afghanistan, dove aveva affondato la radici, non è riuscito a vincere l’ostilità  di molti taliban, insofferenti alla presenza straniera degli arabi. Ha raccolto soprattutto odio. Sono stati in pochi a dargli ascolto. Il concetto della “umma”, della comunità  dei credenti, sottoposta all’autorità  di un califfato, di cui Bin Laden pensava di essere il precursore, si è scontrato con il nazionalismo tribale dei pashtun, gelosi della propria identità . Sia pur segnata dal marchio dell’integralismo religioso. In Iraq Al Qaeda ha subito la sua più severa sconfitta. Il richiamo islamico all’inizio ha funzionato. Migliaia di sunniti, spesso salafisti, sono accorsi nella valle del Tigri e dell’Eufrate per combattere gli infedeli che l’avevano invasa. E l’alleanza con il disperso esercito laico di Saddam Hussein ha funzionato per alcuni mesi rendendo difficile la vita degli occupanti americani e dei loro alleati. L’effimero esperimento di Falluja, città  sunnita governata dagli integralisti di Al Qaeda, è stato tuttavia disastroso. Sinistro. Al punto da provocare le prime spaccature tra gli insorti laici, in gran parte militari iracheni del dissolto esercito di Saddam, e i gruppi arabi internazionalisti che si richiamavano a Bin Laden. Questi ultimi organizzavano attentati, senza risparmiare gli abitanti, e si accanivano contro la maggioranza sciita, considerata eretica. Cosi si è arrivati a una scissione tra laici e integralisti. E poi a scontri sanguinosi tra di loro, perché i laici hanno formato milizie pagate dagli americani, pur di distinguersi dai jihadisti. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq ma non l’hanno conquistato perché il paese è rimasto ostile e il terrorismo non è stato sconfitto del tutto. Ma i gruppi arabi internazionalisti, ispirati anche se non direttamente guidati da Bin Laden, non hanno realizzato la rivoluzione. Sono rimasti terroristi senza avvenire. Al Qaeda è all’origine di due guerre, in Afghanistan e in Iraq. A promuoverle è stato Bush jr e Osama Bin Laden le ha affrontate perdendole in sostanza entrambe. Nei due paesi gli uomini che si ispiravano a lui sono stati detestati ed emarginati nei due paesi. Non hanno saputo conquistare la popolazione. Per gli iracheni sono rimasti stranieri crudeli, dediti soltanto al terrorismo. Non sono mai riusciti a essere un’alternativa politica. La gente non li ha seguiti. Può suonare azzardato affermare che yankees e jihadisti hanno perduto insieme la guerra. Ma c’è qualcosa di vero. Il giordano-palestinese Mussab al Zarqaui, capo di Al Qaeda in Mesopotamia, ha ucciso più iracheni che americani. Le sue vittime erano soprattutto appartenenti alla comunità  sciita. Per i giovani gli eroi sono cambiati. Wael Ghonim, uno degli animatori dell’insurrezione egiziana, il primo a lanciare l’idea della manifestazione di piazza Tahrir, in occasione della morte di Osama Bin Laden ha scritto: «L’anno che viviamo resterà  nella storia. Siamo soltanto al mese di maggio, e tante cose sono avvenute: Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e adesso OBL». Vale a dire Osama Bin Laden, elencato insieme ai raìs cacciati dal potere o sul punto di esserlo. Wael Ghonin e i suoi compagni hanno in realtà  decretato la prima morte del capo di Al Qaeda ignorandolo. Girandogli le spalle. I suoi cupi richiami non colpivano più le fantasie dei giovani egiziani, tunisini, libici, siriani, yemeniti. In qualche mese loro sono riusciti a detronizzare due raìs e a metterne in pericolo almeno altri tre. Osama Bin Laden non ha sconfitto nessuno. Con i suoi atti di terrorismo, con le sue minacce, ha seminato morte e paura. E ha soprattutto alimentato l’immobilismo di società  giovani e impazienti. Perché al fine di controllarlo le potenze occidentali hanno finanziato i raìs incaricati di tenere a bada lui, Osama, e i suoi uomini. Raìs corrotti, invecchiati nei loro palazzi, protetti e serviti da forze dell’ordine spesso pagate dagli Stati Uniti. Ha ragione Abdulkhaleq Abdullah, professore di scienze politiche all’Università  degli Emirati, quando dice che Osama Bin Laden ha contribuito a mantenere la miseria, a provocare le disfatte e a tenere nella stagnazione le società  arabe. Incutendo il terrore e quindi il sospetto impediva riforme e aperture. Nessuno si fa tuttavia illusioni sul fatto che la morte del capo, per altro da tempo soltanto simbolico, segni la fine dell’azione terroristica. La sua rivoluzione è fallita. Ma i suoi seguaci sono ancora sguinzagliati nel mondo e sono in grado di seminare la morte. Se non altro per spirito di vendetta. Per il resto, i popoli che volevano sollevare non li ascoltano più: hanno fatto o stanno facendo la rivoluzione che Osama Bin Laden sognava e predicava. Ma non glielo hanno neppure detto. È stato un insulto. Anzi un’esecuzione, ancor prima di quella finale avvenuta in Pakistan, per opera del commando americano. L’arabo Osama è stato insomma “ucciso” dagli arabi.


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