by Editore | 8 Maggio 2011 7:25
Kabul – il burqa da solo non basta per attraversare le gole di Nahrin, infestate di banditi. Se fossi scoperta sarebbero guai anche per gli afgani che viaggiano con me. L’accesso alle valli Khost wa Firing è terreno di agguati, dove la polizia non entra e nemmeno l’esercito. Nessuno va a ficcarsi in mezzo a predoni e faide tribali di cui nessuno ricorda l’inizio. Il burqa non basta, dicevo. Ci vuole altro. Portamento, gesti, andatura. Dentro il mio sacco di nylon azzurro incollato dal sudore ricapitolo la lezione che mi hanno dato le donne prima di partire, ridendo delle altre straniere che ci hanno provato. «Vi si vede a un chilometro», hanno detto, «avete un altro corpo». Anche per questo mi hanno dipinto le mani con disegni di hennè e mi hanno infilato scarpette dorate di plastica. Complici, mi preparano come per una festa di matrimonio, unica occasione che mi consentirebbe di sdoganare la Leica nascosta, se venisse scoperta. Le regole dunque: tacere, chinare il capo, intrecciare le falde del mantello, rimpicciolire, pietrificarsi. Abbigliamento luccicante da contadina, pantaloni psichedelici con paillettes, borsetta con soldi pronti in caso di rapina, documenti nascosti, cuciti nella tappezzeria della macchina e registratore nelle mutande. Soprattutto, ricordarsi che la grata del burqa, così stretta, è fatta per svelare dove guardi, e quindi le tue paure. Ogni minima cosa è sintomo, codice, segno.
Abbiamo fortuna, passiamo senza problemi. Siamo riusciti a infilarci tra due agguati. Muhiddin ride, accanto a me. È un ingegnere tagico e si è offerto di farmi da marito. Io sono Aisha, uzbeca, abbiamo tre figli e non ricordo mai i loro nomi. Essere uzbeca mi abilita ad avere occhi azzurri e non sapere bene la lingua dari. Ride Muhiddin, ride l’autista Nabi, ride anche Michal. Qui riso e leggerezza sono la difesa migliore per chi rischia ogni giorno la vita.
«Qui la vita è questione di stile», mi ripetono. Il comportamento cambia di zona in zona; tutto è teatro. Anche per i Taliban, che per entrare a Kabul si sbarbano. I copricapi sono costumi di scena. Dicono se sei mullah, studente, operaio; del nord o del sud, tagico o pashtun. A Kandahar non porterai mai un berretto alla Massoud. Lo stesso per il camicione, per il taglio o il colore della tintura per barba e sopracciglia, e persino per il trucco degli occhi. Qui gli uomini si truccano, hanno in tasca uno specchietto con una procace diva indiana sul coperchio e si fregano le palpebre con una pietra simile alla grafite.
La mimesi è vita. Guai ostentare pinguedine e bei vestiti, perché diventi un boccone succulento, e qui il rapimento è il business più fiorente. Enajad ha pagato caro la sua passione per i ricami sui camicioni e le goloserie di sua moglie. Lo hanno scambiato per il proprietario della ditta dove lavorava e l’hanno sequestrato chiedendo 240mila dollari. Chiuso per mesi in un buco sotto terra, ha visto da una fessura nel terreno esecuzioni e mutilazioni quotidiane di altri sequestrati. Ecco cosa rischia un afgano se sbaglia costume di scena.
A Kabul cambia tutto. Il burqa non serve più anche se la città pullula di Taliban. Sotto uno spolverino e un foulard ora indosso i jeans, e tutto è rigorosamente nero. Le donne qui hanno fatto la rivoluzione dei jeans e dei vestiti attillati. Sono gli stessi afgani a dirmi di togliermi le braghe larghe che mi fanno sembrare campagnola. Devo buttare gli scarponcini che avevo sui monti del Wakhan; qui ti riconoscono dalle scarpe. Una volta trovata la chiave posso fare quello che nessun occidentale può fare a Kabul: camminare da sola, anche di notte. Prendere taxi collettivi, fare l’autostop, dormire in casa di gente appena conosciuta, entrare – bene accolta – in santuari per soli uomini.
Non voglio sembrare afgana ma solo mostrare rispetto per le usanze e allungare i tempi di riconoscimento per evitare eccessi di curiosità . Benedico la polvere, perché col vento obbliga tutti – anche gli uomini – a coprirsi il volto. Ma la mia presenza è un fatto così eccezionale che in una moschea gli uomini piangono di commozione e, un giorno di festa religiosa, tre troupe televisive – due afgane e una irachena – mi inseguono per strada per estorcermi interviste. Dieci anni di guerra hanno affinato questa capacità mimetica. La coperta – detta patù – che gli uomini usano anche come scialle ha i colori della terra. Marrone, grigio, oliva, verde. Serve a nascondersi in caso di sparatorie, senza lasciar fuori nemmeno le unghie che col loro riflesso possono svelarti. Anche il riflesso della mia macchina fotografica può essere scambiato per la canna di un fucile, basterebbe per farmi ammazzare dai rambo sulle torrette dei blindati. Basta un niente a scatenare una reazione. La gente lo sa e mormora preghiere. Li sento, tra la folla, accanto a me.
Bisogna stare attenti agli afgani, sono capaci di qualsiasi cosa per renderti invisibile. Al mio amico Arif che mi accompagna devo far giurare di sparire all’istante nel caso mi succedesse qualcosa. Ma è un giuramento estorto e non sono certa che saprà mantenerlo. Un giorno chiedo a un autista appena conosciuto di portarmi in un paesino fuori Mazar, e l’indomani questo si presenta con due macchine piene di un’intera tribù pashtun per nascondermi meglio. Le donne ostentano vestiti occidentali, così occidentali che l’unica afgana sembro io. Attorno a me bambine, ragazze liceali, due distrofici, la moglie di lui che insegna all’università . Mi vergogno, sto per piangere. Bambini come scudi umani per garantire la mia vita. Ma per loro è festa, non rinuncerebbero per nulla al mondo al loro picnic con le angurie e il thermos del tè. Scena perfetta. Manca solo la pecora nel bagagliaio.
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