Google: se il colosso di Internet evade tre miliardi di tasse

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LONDRA – Digitando su Google le parole “tax evasion” (evasione fiscale) si ricavano 6 milioni e 750 mila risultati in meno di un secondo. Se a quelle due parolette se ne aggiunge una terza, “google”, saltano fuori 1 milione e 200 mila risultati, che non sono pochi. La trasparenza del motore di ricerca più cliccato del mondo è tale da non nascondere nemmeno le accuse nei suoi confronti: sebbene non sia chiaro se si tratti di trasparenza dell’informazione o arroganza di un potere pressochè intoccabile. Secondo un’inchiesta pubblicata ieri dal Sunday Times di Londra, infatti, Google ha evaso “legalmente” 3 miliardi di sterline (circa 3 miliardi e mezzo di euro) negli ultimi cinque anni in Gran Bretagna e in altri paesi. Merito degli avvocati e dell’organizzazione di un’elaborata rete di società  che sfrutta diverse giurisdizioni in materia di imposte, con un sistema di scatole cinesi in cui dentro una società  ce n’è un’altra e dentro quella un’altra ancora, tutte con differente sede legale. Girando tra Regno Unito, Irlanda e Olanda, una parte dei profitti dell’azienda tecnologica più ricca del pianeta finiscono alle isole Bermuda, centro off-shore specializzato nell’azzerare o quasi le tasse per le persone fisiche e le società  che vi risiedono.
In questo modo ogni anno Google versa nelle casse dello stato britannico appena 3 milioni di sterline (3 milioni e mezzo di euro), un’inezia rispetto ai suoi guadagni, considerato che soltanto in pubblicità  ha nel Regno Unito un fatturato annuo di 2 miliardi di sterline (quasi 2 miliardi e mezzo di euro). Google non è l’unica a fare uso di sistemi “legali” per pagare meno tasse possibile, specie in un Paese come la Gran Bretagna che è stata a lungo, negli anni di Blair, e tuttora rimane una sorta di paradiso fiscale, capace di attirare a Londra come residenti e investitori frotte di miliardari. Pochi mesi or sono era scoppiato lo scandalo della Barclays, una delle maggiori banche britanniche, che pur avendo profitti per centinaia di miliardi paga al fisco un’aliquota di appena l’1 per cento, quando quella normale sulle società  è intorno al 30 per cento e quella più alta per le persone fisiche supera il 50 per cento del reddito.
Nel caso di Google lo scandalo ha un ricasco politico imbarazzante per il governo conservatore. Il premier David Cameron ha nominato lo scorso anno Eric Schmidt, presidente del gigante online, suo consulente per il business; e il consulente del primo ministro per le questioni strategiche, Steve Hilton, è sposato con Rachel Whetstone, membro del consiglio di amministrazione di Google. Come se non bastasse il ministro del Tesoro George Osborne è intervenuto nei giorni scorsi, per la seconda volta, alla conferenza annuale di Google e ha offerto un pranzo in onore di Schmidt. Una vicinanza che somiglia a una protezione, alimenta sospetti su scambi di favori tra il business e il governo e aumenta la frizione tra il ministro Osborne e il ministro per le Attività  Produttive Vince Cable, liberaldemocratico, che ha accusato Google di «schivare le sue responsabilità  sociali». Un modo come un altro per dire che evade le tasse. Sia pure legalmente.


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