by Editore | 30 Maggio 2011 6:11
«No, il mio non è un esilio», dice Gian Enrico Rusconi, 73 anni, studioso dal profilo inusuale che incrocia storiografia e scienza politica, autore di libri su Weimar, sulla grande guerra, più recentemente su Cavour e Bismarck, brianzolo di nascita e torinese di adozione, da cinque anni residente a Berlino con un incarico alla Freie Università¤t. «Mi sento parte del nostro Paese, e il mio trasloco in Germania non deve essere frainteso con una fuga. Semmai patisco la tristezza di essere italiano, una condizione condivisa da molti connazionali».
Perché è triste essere italiani?
«Il berlusconismo ci espone al sarcasmo, questo è risaputo. Ma la mia impressione è che, al di là delle star come Eco, Magris o Abbado, la cultura italiana abbia smesso di essere interessante. Come se non avessimo più niente da dare. La mia esperienza riguarda il rapporto con la Germania, ma temo che le nostre relazioni culturali siano cambiate anche altrove. Fino a qualche tempo fa i nostri seminari erano affollati dai Winckler e dai Nolte, insomma dai maggiori storici tedeschi. Ora non siamo più Gesprà¤chspartner, dei veri interlocutori, compagni di pensiero e di confronto».
Quando abbiamo smesso di esserlo?
«Negli anni Novanta s’è come sbriciolato lentamente e irreversibilmente un mondo intellettuale e politico che aveva esercitato fascino in tutta Europa. Abbiamo cominciato a ripeterci. Siamo diventati epigoni. Il berlusconismo è la fenomenologia di questa decomposizione, non la causa. Ancora negli anni Ottanta da Berlino si guardava all’Italia come a un laboratorio politico e intellettuale. Tutta la cultura tedesca, non solo la sinistra, seguiva la nostra riflessione su Gramsci, sull’eurocomunismo, sulla socialdemocrazia. Oggi siamo i maggiori esportatori della postdemocrazia: la novità che offriamo de facto è il populismo mediatico, una novità che fa paura».
Qual è stata l’occasione mancata?
«Posso riferirle la mia esperienza personale, di provinciale torinese affascinato da Roma e dalle sue seduzioni intellettuali. Tra gli anni Settanta e Ottanta mi capitava di andarci con una certa frequenza: forse un po’ la sopravvalutavo, più tardi ne avrei visto tutti i limiti. Era la Roma dei Lucio Colletti e degli Enrico Filippini, grandi personaggi che non mi risparmiavano il loro sarcasmo».
Filippini scrisse di lei che pur avendo una formazione tedesca era uno «studioso calmo», lontano dalla concitata tenebra di quella tradizione.
«Mah, chissà cosa avrà voluto dire. Provenivo da studi filosofici, la mia tesi riguardava la Scuola di Francoforte. Nel 1959 m’ero imbattuto nel libro che mi avrebbe cambiato la vita, Minima Moralia. Al principio della nostra amicizia, Colletti che era un marxista ortodosso ironizzava sulla mia ossessione francofortese, più tardi mi avrebbe riconosciuto che avevo visto un sacco di cose».
Questo però non c’entra con l’occasione mancata della cultura italiana.
«È interessante per il clima di quegli anni. Per me è stata paradigmatica la vicenda di Laboratorio Politico, la rivista einaudiana fondata nell’81 da Asor Rosa e Tronti e alla quale parteciparono personalità di ispirazione diversissima come Amato, Rodotà , Cacciari, Accornero, Bodei e Tarantelli. Eravamo un gruppo eterogeneo, ma molto ben amalgamato, all’incrocio tra discipline diverse come la politologia, la teoria delle istituzioni, la sociologia. Avevamo come la sensazione che fossimo alla vigilia di una svolta che però poi non c’è stata».
Che cosa doveva accadere?
«Doveva nascere una sinistra più matura e consapevole, concretamente riformista, che tuttavia non è mai nata. In quel momento la mia generazione inconsciamente sentiva che era arrivata la sua chance: era solo una questione di tempo e congiuntura. Non ce l’abbiamo fatta. Laboratorio politico si sciolse spontaneamente, un atto onesto, come se riconoscessimo il nostro fallimento».
Secondo lei perché non ha funzionato?
«È mancata una riflessione seria sulla nazione, liquidata con critiche superficiali. Non siamo riusciti a sottrarre la nozione di socialdemocrazia dal tabù che l’avvolgeva (socialdemocratico è rimasto a lungo un termine offensivo). E non abbiamo fatto nei tempi giusti quel che si sarebbe chiamato il revisionismo, ossia mettere a fuoco una visione meno mitica e più autocritica della Resistenza. Operazione culturale che sarebbe stata fatta malamente nel decennio successivo, sotto la spinta della seconda Repubblica. Le tesi di Renzo De Felice sul consenso e sull’attendismo furono prese di punta. Alla discussione si preferì l’aggressione. Lo ricordo sorpreso e amareggiato: s’aspettava di essere riconosciuto, non attaccato».
Ma De Felice aveva un doppio profilo: lo storico si distingueva dal personaggio, che cominciò proprio alla metà degli anni Ottanta a rilasciare interviste politiche.
«Sì, ma la demonizzazione di De Felice è stato un errore colossale. Ne è nato un defelicismo deteriore che ha fatto danno. Ne parlai all’epoca anche con Bobbio, che reagiva con il suo stile elusivo. Però sono sicuro che condivideva i miei argomenti, anche se i suoi allievi cercavano di tirarlo dalla loro parte. Prova ne sia che Bobbio e De Felice, pur nella netta distinzione, non hanno mai giocato l’uno contro l’altro».
Lei invece discusse con Bobbio a proposito dell’azionismo, accusato di una sorta di «esilio interno».
«Rilevavo una dimensione aristocratica della tradizione azionista, ma ad avercene oggi… Preferirei non aprire quella pagina. Mi fece molto male e, a distanza di vent’anni, non l’ho ancora capita. Penso che si sia trattato di un equivoco, e non mi furono risparmiate cattiverie: non da Bobbio, ma dai bobbiani».
Questa sulla nazione è una sua riflessione ricorrente. Lei critica l’intera intellighenzia italiana di aver snobbato il tema nazionale, riservandogli critiche frettolose.
«Sì, per motivi diversi. La cultura italiana è stata sensibile ad altri paradigmi ideologici, preda di una sorta di ossessione del fascismo e incapace di distinguere nazionalismo e sentimento nazionale. Lo denunciai al principio degli anni Novanta, quando la coesione nazionale m’apparve sfilacciata. Credo di essere stato tra i primi a domandarsi se esistevamo ancora come nazione. La mia attenzione al fenomeno leghista fu liquidata come un’ossessione da provinciale brianzolo. Fui trattato da ingenuo».
Lei in quel saggio premonitore, Se cessiamo di essere una nazione, accusava la «cultura cosiddetta alta» di essere afflitta dal complesso del provinciale rispetto alle grandi culture europee.
«Sì, è vero, gli italiani soffrono d’un complesso d’inferiorità che però è ingiustificato. Siamo molto bravi. Solo che a differenza di inglesi e tedeschi parliamo un dialetto che non capisce più nessuno. È come se ci vergognassimo per non essere stati all’altezza delle altre vicende nazionali, orgogliose nell’esibire i trofei e nascondere i fallimenti. Invece noi siamo grandi nel restituire le nostre debolezze. Per i centocinquant’anni, l’ambasciatore italiano a Berlino ha avuto la splendida idea di proiettare il Gattopardo, che ci racconta nelle nostre contraddizioni e incompiutezze. “Che grande storia, che grande popolo”, commentava lo storico tedesco Michael Stà¼rmer seduto vicino a me».
Ma larga parte della storiografia italiana, come lei ha rilevato, nel dopoguerra ha preferito concentrarsi sui fallimenti piuttosto che narrare una storia “affermativa”.
«Non c’è dubbio. Con un altro limite, la nostra incapacità di guardare alla politica estera: ci è sempre mancata la lucida consapevolezza della collocazione dell’Italia nel mondo. Non siamo stati in grado di riconoscerne la grandezza, quando c’è stata, preferendo liquidare come Italietta la classe dirigente liberale di fine Ottocento. Ma quale Italietta!».
Oggi il problema, discusso anche all’interno, è la mancanza di una comunità di storici capace di elaborare una riflessione sulla storia nazionale, allargando lo sguardo ad altri Paesi. Anche all’Università prevale una tendenza al localismo.
«Vero. Mi verrebbe da aggiungere che lo smarrimento è percepibile anche in Germania: la generazione attuale degli storici appare come schiacciata sotto il peso della generazione precedente, che ha fatto i conti con il nazismo. Ma altrove hanno risorse che noi non abbiamo. Hanno un’università che funziona. Hanno una burocrazia efficiente. Hanno un orizzonte internazionale che a noi manca. Il nostro è un Paese declassato. Ed è inevitabile che questo si riverberi anche sulla comunità intellettuale».
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