by Editore | 14 Maggio 2011 6:49
Consapevolmente o meno, ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini ha “stanato” Muammar Gheddafi. E il colonnello ha risposto, è venuto fuori con una telefonata trasmessa in tv che sembra quella di un Osama Bin Laden alla fine dei suoi giorni, o forse di un capomafia braccato e in fuga. «Voglio dire alla Nato che le vostre bombe non possono colpirmi, perché io sono nel cuore di milioni di libici», ha detto Gheddafi al telefono, «sono in un posto dove non potete raggiungermi». Un messaggio che conferma ancora una volta la volontà forsennata di Gheddafi di resistere e combattere, ma lo rappresenta in fuga, nascosto nella sua stessa Tripoli per sfuggire ai caccia della Nato che fanno terra bruciata dei centri di comando e controllo in cui potrebbe nascondersi.
Tutto era stato innescato nel pomeriggio dalle parole del ministro degli Esteri, che a sua volta rilanciava le parole del vescovo cattolico di Tripoli, monsignor Giovanni Martinelli: «Gheddafi potrebbe essere ferito, e potrebbe già essere fuori Tripoli», aveva detto il prelato e così aveva rilanciato il ministro. «Io tendo a credere alle parole di monsignor Martinelli quando dice che lui sia ferito e fuori Tripoli, senza spiegare dove e come», diceva il ministro.
Frattini quindi non faceva altro che ripetere – senza sue informazioni specifiche – le parole pronunciate giovedì dal vescovo. Che ieri sera a sua volta si è fatto intervistare dalla Radio Vaticana per rettificare le sue stesse dichiarazioni, e dire che lui non sa con certezza se il raìs sia ferito e tantomeno che abbia lasciato la capitale libica. «Mai dette quelle parole, rispondevo alle domande di un giornalista che ha fatto delle ipotesi», correggeva il vescovo che negli anni Ottanta fu incarcerato dal regime e da allora ha imparato a sopravvivere in Libia per proteggere la comunità cristiana. Un tempo, una fase ormai da coniugare al passato, visto che ieri sera monsignor Martinelli secondo informazioni non confermate, avrebbe lasciato la Libia per rifugiarsi in Tunisia.
Sia come sia, ieri il governo italiano ha contribuito in maniera forse non intenzionale ma di certo concreta a quella «guerra psicologica» che ha sempre fatto parte della guerra di Libia. Una guerra che però da giorni ha preso una direzione soltanto: quella di «bombardare» di parole il colonnello libico per convincerlo alla resa o alla fuga prima che un missile arrivi a colpire il bersaglio grosso.
Prima della telefonata di Gheddafi, ieri sera a Frattini aveva reagito il portavoce di Tripoli Moussa Ibrahim parlando con i giornalisti rimasti all’Hotel Rixos di Tripoli: «Gheddafi sta bene ed è a Tripoli». Il commento di Ibrahim dà però il segno del nervosismo, della stanchezza che regna nel gruppo dei fedelissimi: «Questo genere di notizie hanno l’unico scopo di abbattere il morale del popolo libico». Di sicuro questo è l’effetto che le parole del governo italiano hanno avuto a Tripoli, rilanciate in tempo reale da agenzie di stampa e televisioni che non hanno pesato o analizzato al microscopio l’incrocio di parole tra ministro e vescovo.
«Una cosa è sicura», dice a Roma una fonte del ministero degli Esteri: «Gheddafi è e si sente braccato, politicamente e militarmente. Se nelle prossime ore non deciderà qualcosa, il Tribunale penale internazionale gli chiuderà la via di fuga di un possibile esilio». E’ prevedibile che nel frattempo i caccia della Nato proveranno ancora a colpire, forti probabilmente di informazioni di intelligence che ormai potrebbero provenire dagli stessi ribelli infiltrati a Tripoli. Secondo alcune informazioni, bandiere tricolori della Libia liberata sono state viste sventolare in alcuni quartieri come Tajura, ma soprattutto molti segnali dicono che anche nella capitale si prepara una rivolta. Pronta ad esplodere quando i cittadini senza armi troveranno il coraggio di sfidare le bande del regime.
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