Europa, ostaggio delle identità
Il timore per le ondate migratorie, condito con buone dosi di xenofobia, e la nostalgia di un inesistente “buon tempo andato” foraggiano partiti dai nomi inquietanti (come i “veri finlandesi”) e leader populisti e telegenici, fautori delle piccole patrie culturalmente, etnicamente e religiosamente omogenee. A volte ci troviamo di fronte a formazioni politiche democratiche e di governo ma ugualmente ancorate a un’etnia, a un territorio, a un orizzonte che divide “noi” e “loro”.
A scorrere le notizie si rimane interdetti. Eccone alcune. Alle elezioni scozzesi del 5 maggio lo Scottish National Party ottiene la maggioranza assoluta dei seggi e il suo leader parla ormai di “indipendenza inevitabile”.
Sei mesi prima simile risultato in Catalogna dove i nazionalisti ottengono una vittoria schiacciante e, dopo che lo Statuto catalano era stato bocciato dalla Corte Costituzionale spagnola critica sul concetto di “nazione catalana”, promettono di puntare a una autonomia ancora più forte sul modello (invero non molto felice) dei Paesi baschi.
Ma proprio attorno alla parola “nazione” ruota la nuova Costituzione ungherese cheriprende medievali rimandi alla Corona di Santo Stefano e che rilancia l’orgoglio del popolo magiaro, a discapito delle minoranze. Al di là della retorica, il testo, approvato il 18 aprile 2011, è stato preceduto l’anno scorso da una controversa legge sulla cittadinanza che concede il passaporto ungherese a tutti i numerosi gruppi magiari sparsi nei paesi limitrofi. Se la Romania (in cui vivono 2 milioni di ungheresi) non pare preoccupata, la reazione della Slovacchia è stata furibonda, segnata dall’approvazione di una legge, per ora non applicata, che prevede di togliere il passaporto a chi, dei 700 mila ungheresi-slovacchi, avesse usufruito dell’opportunità offerta dalla “madrepatria”. Morale della favola: nei due paesi vincono partiti ultranazionalisti e persino la Chiesa riformata slovacca rischia di dividersi su base etnica.
Analoga tensione tra Polonia e Lituania dopo che, nel marzo scorso, il Parlamento lituano ha varato una norma che diminuisce drasticamente la possibilità per la minoranza polacca di usare la propria lingua nell’insegnamento scolastico.
E ancora: l’11 maggio la Danimarca ha dichiarato di voler sospendere il Trattato di Schengen ripristinando dal mese di giugno i controlli alle frontiere; la crisi di governo che rischia di disgregare il Belgio è giunta al traguardo dell’anno; il nostro ministro dell’interno Maroni non sa dove e come mandare via gli zingari perché “purtroppo” sono italiani.
Come si può rispondere a tutto questo con una positiva innovazione e non con sterili denunce? Occorrono proposte che guardino al futuro. È importante anche conoscere e appoggiare quelle iniziative che abbattono i confini statali in nome di una storia e di tradizioni comuni, senza cadere nel nazionalismo: è il caso dell’Euregio, l’Euroregione alpina Alto Adige/Sà¼dtirol-Trentino-Tirolo (le regioni del Tirolo storico) che dal 1993 vede le tre dimensioni locali fortemente impegnate in una progressiva integrazione culturale, economica, sociale ma anche politico- istituzionale, sempre nel quadro della convenzione di Madrid sulla cooperazione transfrontaliera in vigore dall’1985.
Restando alla dimensione europea una risposta alla crisi attuale passa attraverso una centralità del Parlamento europeo, non soltanto istituzionale (nuovi trattati sono forse improponibili), ma soprattutto politica. Molto interessante è l’idea di aprire le elezioni europee a liste transnazionali alimentando così la nascita di una coscienza europea che è l’elemento indispensabile, e oggi così mancante, per un nuovo possibile cammino di integrazione: abbattere le frontiere nazionali dei partiti in un generale rinnovamento ideale e, oserei dire, ideologico significa oggi essere in grado di competere sullo scenario globale.
Se il ritorno alla logica degli stati nazionali è un vero e proprio suicidio, oggi è più neppure sufficiente ragionare in termini d’Europa. Lo sguardo deve abbracciare l’orizzonte-mondo. Come scrive nel suo ultimo libro Parag Khanna, lo studioso indiano trentaquattrenne consigliere diplomatico di Obama, la crisi finanziaria, la globalizzazione delle comunicazioni, la spinta demografica, la questione ambientale hanno sgretolato il potere (e anche l’identità ) degli stati novecenteschi: occorre lavorare per una maggiore collaborazione tra «punto-org, punto-com e punto-gov», cioè tra ong, aziende, istituzioni globali in una logica di rete. Oggi più che mai vale l’ammonimento biblico: maledetto chi resta da solo.
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