E Obama ridisegna la via alla democrazia per il mondo arabo
NEW YORK— La questione palestinese rimossa dal centro del palcoscenico diplomatico. Tutti i riflettori puntati, invece, sulla «primavera araba» e sui modi in cui gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente possono sostenere movimenti libertari che fin qui non hanno dato grande spazio alla protesta anti Usa e nemmeno anti Israele. Un piano di aiuti economici americani a Egitto e Tunisia, i Paesi che hanno già avviato la transizione verso possibili sbocchi democratici. La fine del «doppio standard» che aveva fin qui tenuto la Siria al riparo di una condanna severa della sua repressione sanguinaria. A due anni dal suo celebre messaggio all’Islam, pronunciato al Cairo nel giugno del 2009, Barack Obama rimodulerà oggi l’intera strategia mediorientale della Casa Bianca con un discorso che, pur invitando a una ripresa del negoziato sulla Palestina e contemplando anche una critica serrata all’alleato israeliano per aver tollerato la costruzione di insediamenti illegali nelle zone occupate dopo la guerra del 1967, finisce per accantonare l’annosa questione prendendo atto che in questo momento nessuna delle due parti è disposta a scommettere su un’iniziativa audace capace di portare ad un accordo duraturo. Il presidente americano che, pure, è reduce dai colloqui di martedì scorso col re Abdullah di Giordania e che domani incontrerà a Washington il premier israeliano Netanyahu, alla fine ha rinunciato a costruire la sua nuova strategia per il Medio Oriente e il Nord Africa attorno a una proposta di pace che, dopo l’accordo tra i palestinesi moderati di Abu Abbas e Hamas, un’organizzazione che non riconosce il diritto all’esistenza di Israele, ha ben poche possibilità di produrre progressi significativi. Anche se è consapevole che la situazione in Palestina potrebbe farsi esplosiva, ora che l’Onu sembra accingersi a riconoscere dignità di Stato all’Autorità palestinese, Obama oggi preferisce concentrarsi sul sostegno alle forze che si oppongono ai vecchi regimi. A partire da una brusca svolta verso quello di Damasco che, dopo molte incertezze, ora subisce una condanna durissima, non diversa da quella che due mesi fa, all’inizio della rivolta libica, si abbatté sulla famiglia Gheddafi. In sostanza il presidente americano punta a capitalizzare il successo conseguito nella lotta al terrorismo con l’eliminazione di Bin Laden e a evitare che i fermenti democratici in Nord Africa e Medio Oriente cambino rotta, soffocati o egemonizzati ai movimenti dell’integralismo islamico. Convinto che povertà e disperazione possano far deragliare i nuovi fermenti, Obama annuncerà oggi un vasto piano Usa di aiuti a Egitto e Tunisia fatto di cancellazione di debiti, sostegno ai progetti infrastrutturali, incentivi per nuove imprese. Ulteriori piani di sostegno economico verranno, poi, discussi la prossima settimana al G8 di Deauville, in Francia. Obama, però, cerca anche di eliminare contraddizioni e curve a gomito dal «path to democracy» , il suo sentiero verso la democrazia. Da ieri, ad esempio, l’America ha smesso di chiudere gli occhi davanti alla feroce repressione del regime siriano finora condannato con molta meno durezza di quello di Gheddafi sulla base di complesse considerazioni geopolitiche. Da ieri il presidente Assad, la sua famiglia e i sei principali esponenti del governo siriano sono sottoposti a sanzioni finanziarie simili a quelle imposte a Gheddafi all’inizio della crisi. Rimane vero che Damasco non è isolata politicamente come il regime di Tripoli, che la Siria mantiene una valenza strategica ben diversa dalla Libia. Non sembrano ipotizzabili interventi militari in territorio siriano: del resto la Russia ha già detto chiaramente che si opporrebbe col suo potere di veto a un’eventuale risoluzione Onu analoga a quella adottata nei confronti della Libia. Ma da oggi gli Stati Uniti cercano di rendere più lineare— e quindi più credibile — la loro linea di sostegno ai fermenti democratici. Un messaggio, quello di Obama, che dovrebbe avere grande spessore politico, ma non privo di rischi, a cominciare da quelli della sottovalutazione della questione del nucleare iraniano e della partita palestinese, gestita fin qui con un approccio un po’ troppo semplicistico. L’irrigidimento di Abu Abbas dipende anche da questo: «Obama mi ha invitato a salire con una scala sull’albero del congelamento degli insediamenti» , ha raccontato tempo fa lo stesso leader palestinese a Newsweek. «Ho accettato e sono salito, ma poi la scala è stata tolta e Obama mi ha detto: adesso salta» .
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