Dal comunismo a Marilyn Monroe l’irresistibile Gary
«Lei deve aver perduto molte cose» disse nel 1946 a Romain Gary, severamente, e in russo («Mnogo poteriali») Georgi Dimitrov, il capo del Komintern, che truccavano di rouge «perché lo stavano imbalsamando da vivo»: Gary, segretario d’ambasciata di Francia a Sofia, lo aveva sorpreso rivelandogli di essere ebreo lituano, e che aveva lasciato la Russia nel 1921. Invece, tante patrie, tante lingue e tanti paesi attraversati non sembravano sufficienti a Romain Gary. Si inventò un padre immaginario, il re del muto Mosjoukine, perché l’attore si fingeva circasso: musulmano turco del Caucaso. Gary, che si chiamava in realtà Roman Kacev, pensava che bisogna dar fuoco all’«io, che non sa che gli succederà tra dieci minuti ma si prende sul serio, e scrive elegie d’amore a se stesso». Così, si scelse due pseudonimi, Gary e Ajar, che comandano, in russo: “brucia!”. Ma si firmò anche Sinibaldi (sostituendo cioè il “Gari” di Garibaldi), e in molti modi ancora; bruciava le identità , appena possibile.
Ma nel 1974, mentre scriveva la pirotecnica autobiografia tradotta da Riccardo Fedriga per Neri Pozza, La notte sarà calma (pagg. 286, euro 12,50), Romain Gary aveva appena perpetrato la più riuscita delle sue mistificazioni. “Smandibolando” la sintassi, aveva creato una nuova lingua, giocosa e esilarante. Firmò un paio di capolavori, Mio caro pitone e poi La vita davanti a sé (in Italia sempre da Neri Pozza), col nome di Emile Ajar, e riuscì fino alla morte a mantenere il segreto; i critici francesi, che da anni consideravano Gary con sufficienza, salutarono il nuovo astro delle lettere – gli assegneranno il premio Goncourt, il secondo.
Romain Gary, ora che aveva indossato il più vistoso dei suoi travestimenti letterari, si sentì pronto per scrivere un’autobiografia. Lo fece a modo suo, inventando un intervistatore (in realtà , un suo amico del liceo, il giornalista svizzero Franà§ois Bondy): ma la scrisse interamente lui, domande e risposte; poi finse di andare a farsi intervistare sul lago di Zurigo – passò in realtà quei giorni a parlare di Gogol e di Conrad col suo amico, e a provarsi sulla Barenstrasse giacche di cuoio che non poteva permettersi. Faceva incetta invece di stilografiche Mont-Blanc, perché quando scriveva – sette ore al giorno, per mantenere in clinica una zia malata di Vilnius e la ex moglie Jean Seberg, l’angelo della Nouvelle Vague precipitata nella follia – non doveva mai restare a corto di penne “cariche”.
Una vita immaginifica come quella di Gary – l’aviatore eroe della battaglia d’Inghilterra, diplomatico e scrittore, innamorato insaziabile delle donne e dei paesi – smerigliata dal suo stile e dalla potente immaginazione, è naturalmente una lettura entusiasmante, e anche, a sorpresa, una delle più profonde e lungimiranti interpretazioni del secolo breve. Le pagine sul mondo comunista, o sulla Hollywood del suo soggiorno da console generale a Los Angeles, sono irresistibili; comiche e pettegole, come si richiede a un memorialista. Walt Disney, con le mani in tasca, controlla gli incassi all’ingresso di Disneyland. Walter Wanger, il produttore di Hollywood considerato colto perché assoldava Scott Fitzgerald, e aveva sparato all’inguine («mirava basso») l’amante della moglie, l’attrice Joan Bennett, offre a Romain Gary la parte di Cesare per un film ancora a basso costo – Antonio e Cleopatra; Gary declina a malincuore. Lo sceriffo di Los Angeles organizza cene nel carcere femminile, servite dalle prigioniere in divisa – una piromane cambia i piatti a Gary offrendogli all’orecchio servigi dettagliati. Marilyn, splendida e ubriaca, lascia tracce dubbie sulla sedia a una cena ufficiale; e Groucho Marx ha uno sguardo maligno e meditabondo, che cerca il punto debole «su cui piantare le sue banderillas». Il cardinale McIntyre, il banchiere amministratore della Chiesa cattolica negli Usa, domanda subito al nuovo console, seriamente, se de Gaulle è un agente di Mosca. («Perché il Quai d’Orsay ha scelto te?», chiede Bondy; «Non so, non lo so proprio; non credo che agli Esteri abbiano il senso dell’umorismo»). All’est, nel dopoguerra, per i diplomatici una libbra di caviale costava come tre euro di oggi, e lo si mangiava con le cipolle; la gente scompariva, e non se ne sentiva più parlare – era l’epoca delle purghe staliniane. Un certo Moloff scappò facendosi spedire per nave, da Varna a Marsiglia, in una cassa di semi di girasole; «come avrà resistito quindici giorni chiuso in quella cassa? Ora vive a Parigi con la sua affascinante signora». E si chiede Gary, di una coppia che si era buttata giù dalla finestra: che fine avrà fatto il loro cane. C’è qualcosa, in lei, che non è in regola, gli aveva detto Vichinsky in persona, l’Inquisitore.
Ma divinatorie, in questa autobiografia di un genio appunto sregolato, sono le pagine sull’ecologia, i rapporti tra l’Europa e il Terzo Mondo con le sue fonti energetiche. I giovani per cui già la vita è spettacolo, improvvisazione, “gettone di presenza”. La “spaventosa” assenza dell’impronta femminile in politica. Le comunità di recupero, in cui Gary non ha mai visto un cane, un gatto «e nemmeno un pesce rosso»: la prima cosa da fare, con un bambino, «è prendergli un cane a cui possa voler bene». La morte, poi, è “sopravvalutata”; come diceva un amico pilota dei Compagnons de la Libération di de Gaulle, prima di ogni azione, infilandosi i guanti e guardando il cielo: «La notte sarà calma».
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