Crescita, Italia fanalino di coda
ROMA – Non c’è più la crisi e non ce ne siamo nemmeno accorti. Pur se fra mille fragilità , sulla carta l’Italia è un Paese in ripresa, ma la sua crescita è stentata e il buio biennio che si è lasciato alle spalle ha minato i due pilastri che storicamente la distinguevano dagli altri partner europei: il risparmio e il welfare. Non mettiamo più da parte i soldi come facevamo una volta e la qualità di servizi sociali offerti è caduta sotto i tagli alla spesa pubblica. La vita è diventata più dura sia per i giovani – che più di tutti hanno pagato lo scotto della recessione – che per le donne, alle quali riesce sempre più difficile fare quei tripli salti mortali che finora hanno permesso loro di tenere assieme il lavoro fuori casa, la cura degli anziani e quella dei bambini.
E’ un’Italia affaticata quella che esce dal rapporto annuale dell’Istat. La crescita c’è stata, ma «è del tutto insoddisfacente», non è bastata «a riassorbire la disoccupazione e a rilanciare i consumi» ha commentato Enrico Giovannini, presidente dell’Istituto di statistica. Quindi «il Paese è più vulnerabile rispetto al passato». Le cifre lasciano pochi dubbi: crescita bassa (1,3 per cento nel 2010), produzione in risalita, ma comunque inferiore del 19 per cento rispetto al periodo pre-crisi. Molte aziende, specialmente le piccole, hanno riconquistato quote d’esportazione e quasi 300 mila di loro sono passate attraverso la crisi aumentando la redditività e il lavoro offerto.
Ma si tratta di isole felici: la realtà è che fra il 2009 e il 2010 sono saltati 532 mila posti di lavoro (501 mila nella fascia degli under 30). Gli ammortizzatori sociali hanno evitato il peggio scongiurando la frattura sociale, ma il paese si è impoverito. E’ ulteriormente caduto il potere d’acquisto (al -3,1 per cento del 2009 si è aggiunto il -0,6 del 2010) e quasi un quarto degli italiani (il 24,7 per cento, circa 15 milioni) vive sulla soglia della povertà e dell’esclusione sociale. Visti i presupposti, il risparmio diventa un miraggio: ora la propensione viaggia attorno al 9,1 per cento (meno 1,4 rispetto all’anno precedente), il livello più basso dal 1990.
Ma la questione oltre che economica è soprattutto sociale: la crisi – analizza l’Istat – ha colpito con maggiore violenza giovani e donne e ha fiaccato la voglia di farcela. In Italia infatti ci sono circa 2 milioni di disoccupati, ma 2 milioni sono anche gli «scoraggiati» (persone che non cercano più lavoro) e 2,1 milioni sono i Neet (ovvero i giovani che non studiano, non lavorano, non fanno formazione), 134 mila in più rispetto allo scorso anno, (in aumento soprattutto fra i maschi, gli stranieri e nel Nord-Est). Sono dati che non si possono sommare fra di loro, ma che danno comunque l’idea di un paese seduto, pronto a rinunciare piuttosto che a reagire (la metà dei Neet, per esempio, resta tale per almeno due anni). Della «depressione» giovanile fa parte anche l’abbandono scolastico, che in Italia raggiunge livelli allarmanti: il 18,8 per cento dei ragazzi lascia prima di aver ottenuto un diploma di scuola superiore. In Sicilia la situazione è ancora più grave: un quarto dei giovani ha solo la licenza media.
Peggiora la condizione femminile: fra le donne, pagate il 20 per cento in meno rispetto ai colleghi, scende l’occupazione qualificata e ottocentomila lavoratrici hanno dichiarato di essere state forzate ad abbandonare il posto alla nascita di un figlio. Peggiora anche la condizione degli anziani: quasi 2 milioni di loro avrebbero bisogno di sostegno, ma nessuno glielo dà . Il welfare traballa, avverte l’Istat, nella rete informale di aiuti (in stragrande maggioranza femminile) che da sempre regge il Paese, si stanno aprendo voragini. «Le donne, da sole, non ce la fanno più»: ora lo dice anche l’Istat.
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