by Editore | 31 Maggio 2011 6:45
ROMA – Se le indiscrezioni della vigilia sono esatte, nelle sue ultime «Considerazioni finali» prima di approdare al vertice della Bce, Mario Draghi lancerà un appello per la crescita. Quella italiana è troppo lenta, insufficiente per risolvere il dramma della disoccupazione, specie di giovani e donne, scarsa per garantire la stabilità dei conti pubblici. La recessione è finita – questo il messaggio – ma la crisi continua. Servono rigore e riforme di struttura per risollevarsi.
Il governatore della Banca d’Italia parla stamani al Gotha dell’economia e della finanza, riunito a Via Nazionale. E’ la sua sesta Relazione, l’occasione per tirare un bilancio del suo lavoro, iniziato nel dicembre del 2005, all’indomani della turbolenta era di Antonio Fazio, recentemente condannato per la vicenda Antonveneta. Allora bisognava ridare lustro ad una istituzione piegata dallo scandalo. Oggi questa stessa istituzione fornisce ai partner Ue il nuovo presidente della Banca centrale europea, in sostituzione del francese Jean-Claude Trichet: la nomina verrà ufficializzata il 24 giugno dal Consiglio Europeo, diventerà operativa dal 1 novembre: da questo punto di vista le sue saranno anche delle «Considerazioni iniziali».
In questo frattempo le autorità italiane dovranno trovare il sostituto – uomo o donna che sia – chiamato a traghettare l’economia fuori dalla crisi e a tutelare le banche, tra le poche nel panorama internazionale che hanno retto all’urto, le cui norme peraltro le sta riscrivendo proprio Draghi come presidente del Financial Stability Board. Dunque: soluzione interna o esterna? Ecco il nodo che il governo e il Quirinale dovranno sciogliere, pare in fretta secondo le ultime intenzioni. I nomi in corsa sono ancora gli stessi: Lorenzo Bini Smaghi, che siede nel board Bce e deve lasciare l’incarico con l’arrivo di Draghi; Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro molto appoggiato dal ministro Tremonti; Fabrizio Saccomanni, Ignazio Visco e Anna Maria Tarantola tra i membri del Direttorio di Palazzo Koch. Se dipendesse da Draghi, ideale sarebbe una scelta interna.
«Una crescita stentata alla lunga spegne il talento innovativo di un’economia; deprime le aspirazioni dei giovani; prelude al regresso; preoccupa in un paese come il nostro, su cui pesano un’evoluzione demografica sfavorevole e un alto debito pubblico», spiegava Draghi al suo esordio. E il quadro non sembra così cambiato. Salvo che adesso, a complicare la situazione, s’è aggiunta la crisi del debito sovrano, tema «sensibile» per i mercati: ora che è certo il trasloco a Francoforte, Draghi l’affronterà soppesando le parole. Ma senza nascondere il fatto che la credibilità dipende dalle azioni dei governi nazionali. Nel caso dell’Italia, gravata da un abnorme debito pubblico, urge il rigore. La crescita è una «priorità assoluta», diceva nel 2006. E lo ripeterà oggi, convinto che l’opera di risanamento non puo’ essere attuata solo riducendo la spesa (meglio se con tagli «selettivi»), ma appunto facendo ripartire il paese. Servirebbe un Pil al 2% almeno: ci si riesce con riforme strutturali e innovazione del sistema produttivo, più competitività e più lavoro. Bisogna ispirarsi al «modello tedesco», che ha trasformato in locomotiva l’economia di quel paese: può funzionare anche da noi. Draghi guarda alla Germania, non a caso il vero custode dell’euro. Alla fine, anche la Cancelliera Merkel ha ritenuto opportuno affidare la moneta all’esperienza del governatore italiano. Appuntamento alle 10,30: i sindacati interni scioperano contro il rigore applicato al personale.
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