Amnesty International – Rapporto 2011: “La tutela dei diritti umani corre sulla rete”
A queste persone e comunità è dedicato il Rapporto Annuale 2011 di Amnesty International presentato oggi, giornata del 50° anniversario della nascita dell’organizzazioneper la tutela dei diritti umani. “Amnesty International fu fondata nel 1961 con la chiara missione di creare un movimento di solidarietà internazionale per combattere l’ingiustizia in ogni angolo del pianeta. Cinquanta anni dopo, il mondo è cambiato enormemente. Tuttavia, oggi più che mai l’imperativo è quello di unire le forze per difendere i diritti umani” – afferma l’organizzazione.
Il Rapporto sottolinea fin dalla nota introduttiva di Salil Shetty, il Segretario generale di Amnesty International, che “il 2010 potrà essere senz’altro ricordato come un anno di svolta in cui attivisti e giornalisti hanno utilizzato nuove tecnologie per mettere il potere di fronte alla verità e, nel farlo, hanno promosso un maggior rispetto dei diritti umani. È stato anche l’anno in cui governi repressivi si sono trovati davanti alla concreta possibilità di avere ormai i giorni contati”. “In quanto movimento creato per far confluire l’indignazione globale in azione in difesa degli oppressi, il nostro impegno è di sostenere quegli attivisti che immaginano un mondo in cui l’informazione sia veramente libera e in cui possano esercitare il diritto di esprimere pacificamente il loro dissenso, al di là del controllo delle autorità ” – dichiara Amnesty International.
Il segretario generale dell’organizzazione ricorda che “l’esempio straordinario e al contempo tragico” di quanto può essere potente l’azione del singolo se amplificata dai nuovi strumenti del mondo virtuale è dato dalla vicenda di Mohamed Bouazizi. Nel dicembre 2010, Mohamed Bouazizi, un venditore ambulante di Sidi Bouzid, in Tunisia, si è dato fuoco davanti al municipio per protestare contro le vessazioni della polizia, l’umiliazione, le difficoltà economiche e il senso di impotenza sperimentato dai giovani come lui.
Le parole che descrivevano il suo gesto di disperazione e di sfiducia hanno viaggiato in tutta la Tunisia, tramite i cellulari e Internet e quelle parole sono riuscite a galvanizzare il dissenso covato per lungo tempo rispetto a un governo oppressivo, con conseguenze del tutto impreviste. A gennaio, a meno di un mese dal gesto disperato di Mohamed Bouazizi, il governo del presidente Zine El ‘Abidine Ben ‘Ali è caduto ed egli ha lasciato il paese, rifugiandosi a Jeddah, in Arabia Saudita. Il popolo tunisino ha celebrato la fine di oltre 20 anni di un regime impunito, aprendo la strada al ripristino di un governo eletto, partecipativo e rispettoso dei diritti.
Amnesty sottolinea come la caduta del governo di Ben ‘Ali ha avuto ripercussioni nell’intera regione e nel mondo. “Stati che utilizzavano tortura e repressione per eliminare il dissenso e che si erano arricchiti attraverso la corruzione e lo sfruttamento economico erano a quel punto costretti a guardarsi alle spalle. Anche le élite locali e i governi esteri che avevano sorretto questi regimi illegittimi, mentre pontificavano di democrazia e diritti umani, manifestavano un certo nervosismo. In meno di un attimo la mobilitazione in Tunisia ha generato agitazioni in altri paesi. La gente è scesa per le strade in Algeria, Bahrein, Giordania, Egitto, Libia e Yemen”.
Amnesty International, che ha iniziato come organizzazione impegnata nella tutela dei prigionieri di coscienza, ribadisce perciò che “è importante mettere in evidenza le violazioni che stanno alla base e che spronano gli attivisti a scrivere e a scendere per le strade tanto quanto lo è riuscire a porre fine alla detenzione e alle violazioni che li colpiscono.”. “I social network sono innovativi, ma soprattutto importanti in quanto costituiscono un potente strumento che può facilitare la condivisione di esperienze e il reciproco sostegno tra voci critiche insoddisfatte che vivono sotto governi che in tutto il mondo si rendono ugualmente responsabili di violazioni”.
Il rapporto dedica attenzione anche al ruolo di Wikileaks. A luglio, Wikileaks e diverse testate giornalistiche di primo piano hanno iniziato a far uscire quasi 100mila documenti riguardanti la guerra in Afghanistan. La loro pubblicazione ha suscitato controversie in merito al contenuto, la legalità e le conseguenze della fuga di notizie. I documenti hanno fornito prove attendibili delle violazioni dei diritti umani documentate da attivisti e giornalisti, violazioni che i governi dell’Afghanistan e della Nato hanno negato. Ma – sottolinea Amnesty che con altre organizzazioni ha evidenziato fin dall’inizio la possibilità di utilizzo a fini repressivi e di ritorsione delle informazioni diffuse da Wikileaks – le organizzazioni di difesa dei diritti umani si sono anche allarmate quando i talebani hanno annunciato che stavano esaminando i documenti pubblicati su Wikileaks e che avrebbero punito gli afgani che avessero collaborato con il governo dell’Afghanistan o con i suoi sostenitori internazionali.
Le nuove tecnologie – afferma l’organizzazione – come tutti gli strumenti, presentano sia rischi che benefici. Wikileaks ha intrapreso misure per assicurare che la futura pubblicazione di documenti avrebbe incorporato il consolidato principio di “non nuocere”, un caposaldo del lavoro di Amnesty International da ormai 50 anni. “Per quanti ritengono che Wikileaks sia amorale, è importante sottolineare – nota Amnesty – che quando coloro che sono al potere non dicono la verità come dovrebbero, per quanti convivono quotidianamente con l’abuso di potere è comprensibilmente altrettanto importante poter celebrare Wikileaks. La loro ultima speranza di ottenere giustizia è la divulgazione, per quanto questa possa essere disordinata, imbarazzante e apparentemente controproducente”.
Tornando alle proteste popolari nei paesi del nord Africa, Amnesty sottolinea che “di fronte alla situazione in Tunisia ed Egitto, la risposta dei governi occidentali fa riflettere”. Gli Stati Uniti hanno chiuso le loro lunghe relazioni con il presidente tunisino Ben ‘Ali e davanti ad analoghe proteste in Egitto, Washington e molti governi europei sono parsi sorpresi e riluttanti a sostenere l’iniziale richiesta dei manifestanti che il presidente Mubarak lasciasse il potere. “Di fatto, in tutto il mondo, molti governi che proclamano il valore dei diritti umani e della democrazia hanno sostenuto esplicitamente leader politici come Muhammad Hosni Mubarak in Egitto e Zine El ‘Abidine Ben ‘Ali in Tunisia, pur essendo ben consapevoli di quanto questi fossero corrotti, repressivi e irrispettosi dei diritti dei loro cittadini” – denuncia Amnesty.
Il rapporto ricorda anche Liu Xiaobo, accademico e coautore del manifesto dissidente “Carta 08” che sebbene non fosse granché noto alla maggioranza dei semplici cittadini cinesi, anche dopo essere stato condannato a 11 anni di carcere, nell’ottobre 2010 è stato insignito del premio Nobel per la pace. “Le autorità cinesi – nota Amnesty – erano ansiose di stroncare il dibattito. Prese in contropiede dall’ampio sostegno offerto a Xiaobo, che hanno ufficialmente definito un “traditore”, hanno bloccato la ricerca della frase “sedia vuota”, un termine che molti cinesi avevano iniziato a utilizzare in riferimento al modo con cui era stato reso omaggio a Liu Xiaobo alla cerimonia di premiazione del Nobel a Oslo, in Norvegia.
A livello internazionale “c’è ancora molto da fare”: sono infatti 98 i paesi che usano la tortura, 54 quelli che adottano una giustizia iniqua, 89 quelli che limitano la libertà d’espressione, 48 che detengono prigionieri di coscienza, 23 in cui ci sono state esecuzioni capitali e 67 che hanno emesso condanne capitali. “Ma le cifre che riassumono il 2010 non dicono tutta la verità : cioè che queste violazioni sono sempre più intollerabili, perché nel mondo la concezione della sacralità umana è sempre più solida” – nota Amnesty.
Venendo all’Italia, nel Rapporto di Amnesty International le denunce di violazioni dei diritti umani sono molteplici e con aggiornamenti fino allo scorso aprile. Si inizia col ricordare che nel 2010 “i diritti dei rom hanno continuato a essere violati e gli sgomberi forzati hanno contribuito a spingere sempre più nella povertà e nell’emarginazione le persone colpite”. Al riguardo Amnesty ricorda che lo scorso marzo, l’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani ha visitato l’Italia per la prima volta e, tra le altre cose, si è detta preoccupata perché le autorità italiane stavano trattando i rom e i migranti come “problemi di sicurezza”, invece di cercare il modo di inserirli nella società .
L’organizzazione sottolinea quindi come “i commenti dispregiativi e discriminatori formulati da politici nei confronti di rom, migranti e persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender hanno alimentato un clima di crescente intolleranza” e “ci sono state nuove violente aggressioni omofobe”. Amnesty nota inoltre che i richiedenti asilo non hanno potuto accedere a procedure efficaci per ottenere protezione internazionale. Sono continuate le segnalazioni di maltrattamenti a opera di agenti delle forze di polizia o di sicurezza mentre non sono cessate le preoccupazioni circa l’accuratezza delle indagini sui decessi in carcere e su presunti maltrattamenti.
Una sezione del capitolo sull’Italia è dedicata anche ai processi successivi alle violenze perpetrate dalle forze dell’ordine italiane durante il G8 di Genova del 2001. “A marzo e maggio, la corte d’appello di Genova ha emesso verdetti di seconda istanza nei processi sulle torture e gli altri maltrattamenti perpetrati da agenti delle forze di polizia e di sicurezza contro i manifestanti in occasione del G8 nel 2001. A fine anno rimaneva aperta l’opportunità di presentare ricorsi presso la Corte di cassazione. A marzo, la corte ha riconosciuto che la maggior parte dei reati occorsi nel centro di detenzione temporanea di Bolzaneto, tra cui lesioni personali gravi, ispezioni e perquisizioni arbitrarie, erano ormai prescritti, ma ha comunque ordinato a tutti i 42 imputati di pagare un risarcimento civile alle vittime. Ha inoltre imposto pene detentive fino a tre anni e due mesi nei confronti di otto imputati. A maggio, la stessa corte ha ritenuto colpevoli 25 delle 28 persone accusate di analoghi abusi commessi nella scuola Armando Diaz, inclusi tutti gli alti funzionari di polizia presenti al momento dei fatti, e ha inflitto pene detentive fino a cinque anni. Molte delle accuse sono cadute a causa della prescrizione. “Tuttavia, se l’Italia avesse introdotto il reato di tortura nel codice penale, la prescrizione non si sarebbe potuta applicare” – conclude la nota di Amnesty che ricorda come “il governo italiano ha rifiutato di introdurre il reato di tortura nella legislazione nazionale”.
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